Su Nanjing Lu, la strada commerciale per antonomasia di Shanghai, si affaccia un enorme Apple Store. Tutto di cristallo, come nella migliore tradizione Apple, occupa quasi un intero isolato ed è sempre pieno di gente. Sempre.
Pochi chilometri più in là, ai margini della Concessione Francese, il quartiere residenziale più ambito nella metropoli, ne sorge un altro, anche questo pieno di gente. Non di expat ansiosi di ritrovarsi in un angolo di Occidente (cosa peraltro inutile nella città con le atmosfere più occidentali di tutta la Cina), ma di cinesi. Perché i cinesi amano Apple. Ne sono fanatici. E’ una questione di status symbol, con ogni probabilità, come lo è guidare una Tesla o una Audi tra i grattacieli di Pudong, o mangiare in un ristorante francese o italiano tra gli eleganti vicoli della Concessione.
Questo fino a maggio del 2019, quando il monitoraggio del mercato di Counterpoint pubblicato il 1 maggio ha registrato un significativo cambiamento: nel primo trimestre dell’anno Huawei era diventato il secondo più grande marchio di smartphone, davanti ad Apple e dietro Samsung, con volumi in crescita di quasi il 50% anno su anno.
Le vendite di smartphone erano aumentate del 50% nell'ultimo trimestre rispetto a un anno prima, mentre le vendite di Apple erano diminuite del 20% a livello globale. Samsung era sceso dell'8% e i telefoni LG avevano fatto ancora peggio, in calo del 40%. Altre marche di telefoni entry-level cinesi come Oppo e Vivo avevano visto aumentare le consegne globali del 10% e del 27% rispettivamente. Xiaomi, vista come la rivale sulla fascia alta di Huawei in Cina, non ha quasi registrato variazioni, tranne un leggero calo dell'1%.
Il risultato è che nel primo trimestre di quest'anno la quota di Huawei nel mercato mondiale degli smartphone ha raggiunto il livello più alto di sempre al 17%. In sostanza i produttori cinesi stanno conquistando nuovi clienti, mentre i sudcoreani e gli americani li stanno perdendo in Asia.
Appena tre settimane dopo la diffusione di questo rapporto, è arrivato il bando della Casa Bianca che per un mese ha gettato nel panico i clienti di Huawei timorosi di vedere il loro smartphone cinese trasformarsi in un inutile pezzo di alluminio e silicio.
Sono state settimane intense, di annunci roboanti e precipitose marce indietro. Settimane durante le quali dal quartier generale di Shenzhen sono partiti segnali ottimistici, concilianti, poi via via sempre più determinati e minacciosi, fino alla conferenza stampa del 26 giugno al Mobile World Congress di Shanghai in cui il presidente di Huawei, Ken Hu, ha annunciato senza mezzi termini che la sua azienda ne ha abbastanza di questo tira e molla e che è pronta a fare a meno della componentistica made in Usa, sia per il 5G che per i device. Ma anche che, seppure per ammissione dello stesso Hu una data di rilascio per il sistema operativo Ark non è ancora disponibile, il lavoro per arrivare alla totale indipendenza anche da Android procede a tutto vapore.
Se fosse una partita a poker, si potrebbe dire che Huawei è andata a vedere il bluff di Donald Trump. E che lo stesso, sebbene con toni meno aggressivi, ha fatto Zte, l’altro colosso delle telecomunicazioni. Entrambe le aziende, forti anche di analisi come quella di Goldaman Sachs secondo cui il bando potrebbe avere conseguenze sui fatturati di società come Qualcomm, Broadcom, Micron, Intel e AMD, hanno alzato la posta.
“Abbiamo assunto iniziative concrete e trovato alternative ai fornitori americani” ha detto Hu incontrando la stampa a Shanghai a proposito delle forniture di infrastrutture per il 5G, “Non abbiamo motivo di ritenere che la fornitura di componenti da produttori giapponesi debba subire contraccolpi dalla situazione che si è venuta a creare per via del bando, perché tutto avviene nel pieno rispetto della compliance. Inoltre con questa nuova componentistica registriamo livelli di performance anche superiori a quelli precedenti. Questo non significa che vogliamo fare a meno dei fornitori americani, ma che se dovessimo essere costretti, non avremmo problemi a farlo”.
E nulla sembrerebbe impedire a Huawei di fare lo stesso con gli smartphone. In un momento in cui Apple perde quote di mercato anche in Europa (si è ridotta al 14,74% durante il primo trimestre del 2019 vendendo il 22,73% di iPhone in meno rispetto al primo trimestre del 2018) cosa succederebbe se la Cina decidesse di chiudere il mercato domestico agli americani?
Non c’è bisogno di immaginare le grandi vetrine di cristallo svuotate di iPhone e iPad: basta pensare ai picchetti di gente indignata di fronte ai negozi di Dolce e Gabbana nei centri commerciali delle metropoli cinesi nei giorni dopo la clamorosa serie di gaffe proprio sulla Cina e alla scomparsa dei prodotti del marchio italiano dai negozi online.
Certo, nelle mani dei cinesi resterebbero milioni di iPhone e iPad, ma cosa succederebbe se dall’App Store di Apple sparissero applicazioni come Baidu, il motore di ricerca; Taobao, il principale negozio online; YouKu, lo YouTube cinese e soprattutto WeChat, il servizio di messaggistica istantanea che viene utilizzato per tutto: da pagare il biglietto della metropolitana o trasferire soldi a prenotare una cena o un viaggio?
La verità è che quando Trump ha fatto la voce grossa, la Cina si è semplicemente rivolta altrove e non ha avuto difficoltà a trovare fornitori disposti a saziare la sua incontenibile fame di prodotti hi-tech, inclusi i giapponesi di Toshiba e Sony, da sempre al fianco degli americani.
Parlando con la stampa a margine del G20 di Osaka, Trump ha riconosciuto che le società statunitensi vendono "una quantità enorme" di prodotti a Huawei e che alcuni "non erano proprio contenti di non poter più vendere" al colosso cinese. Questo può aver contribuito a fargli cambiare idea, così come l’immagine, che qualcuno potrebbe avergli suggerito, di migliaia di clienti che lasciano l’Apple Store per migrare in massa verso il flagship store di Huawei su Nanjing Lu. In fondo sono solo poche decine di metri.