A pensarci bene tutto comincia nel 2013, quando Huawei lancia il P6 (si chiama ancora Ascend, dalla serie in cui è inserito) e presenta la 'modalità bellezza'. E’ una sorta di photoshop embeddato nella fotocamera. E' ancora un po' rudimentale, ma assolutamente rivoluzionario per un'epoca in cui il selfie è considerato una mania da esibizionisti e si dibatte se si debba chiamarlo autoscatto.
Quello che il filtro bellezza (come presto sarà ribattezzato) fa è esattamente questo: cerca di rendere più belli. Corregge i difetti della pelle, sbianca i denti, ingrandisce gli occhi, schiarisce o scurisce l’incarnato. A saperlo usare è un atout incredibile per influencer e starlette, ma se si esagera si rischia l'effetto faccia di gomma.
Le cose negli anni si sono evolute, ma la filosofia di un certo tipo di tecnologia è rimasta la stessa: condensare il massimo della usabilità e della resa e metterlo nelle mani di chi è lontano anni luce dall'essere un Helmut Newton o una Annie Lebowitz.
Si sono evoluti anche i telefoni e la serie P di Huawei è arrivata al numero 30. Il colosso cinese ha capito che il segmento fotografico è quello in cui dà e deve continuare a dare il meglio e già dal P9 l'alleanza con Leica ha segnato una svolta identitaria ben precisa.
Ma se con il filtro bellezza del P9, si trattava di smussare qualche asperità del viso, con il P30 Pro l’obiettivo è un altro: mostrare una realtà che non vediamo.
Che non vediamo, attenzione: non che non esiste. O che vediamo, ma non riusciamo a riprodurre.
Prendiamo la Super Luna. Periodicamente si parla di quel fenomeno per cui la Luna ci sembra più vicina, più grande, più luminosa. Più bella, insomma.
E in effetti, alzando il naso al cielo in una serata che ci ha fatto la grazia di essere sgombra dalle nuvole, è quello che ci appare. Un incanto che in un’altra epoca avremmo goduto in assoluta solitudine, o al massimo con una persona al nostro fianco, senza nemmeno bisogno di parlare. Ma che ora dobbiamo condividere, per ragioni così varie e molteplici che tutte rischiano di scadere nel luogo comune.
E quale strumento più rapido e funzionale di uno smartphone per farlo? Basta inquadrare, scattare e…
E niente. La Luna, semplicemente, non c’è. Nella migliore delle ipotesi quello che il sensore ha impresso nella memoria è un globo luminoso, sfocato e tremolante, come se avessimo fotografato un lampione con un cellulare di quindici anni fa. Delusione, rassegnazione, addio condivisione.
Il P30 Pro – ma già prima di lui il P20 e il Mate 20 Pro – si propongono si saltare questa fase delusoria. Si inquadra, si scatta e la Luna è lì, sul nostro display, grande, luminosa e definita come la vede il nostro occhio nel cielo. Anzi, più grande, più luminosa, più definita. E allora perché non fare lo stesso con il cielo stellato? Ed ecco che la fotocamera ci restituisce un’immagine che sembra scattata dal telescopio Hubble. O con un bosco notturno che ora sembra ripreso nella luce dell’alba. O in un teatro semibuio, una sala concerto, una festa, una notte di bagordi.
Sempre la fotocamera ci restituisce una realtà che esiste, è lì, ma non è quella che vediamo. La sensibilità del sensore va oltre le capacità del nostro occhio e ci mostra qualcosa che ricorderemo, ma che in realtà non abbiamo visto. È un milione di passi in più rispetto al filtro bellezza di sei anni fa, e si avvicina al concetto di realtà aumentata. Non si falsifica niente, semplicemente si mostra quello che non si vede.
Ma è questo che vogliamo? Guardare oltre le nostre capacità? In Huawei non hanno dubbi: un grande fotografo sa usare gli strumenti che ha a disposizione per riprodurre al meglio la realtà, dice Pier Giorgio Furcas, vice general manager Italia, a margine della presentazione* del P30 Pro. Non necessariamente migliorarla, come già accade.
Ed è forse questo il prossimo passo: non più falsificare quello che vediamo trasformandolo in quello che vorremmo vedere, ma mostrare quello che vorremmo guardare, ma non riusciamo a vedere.
Finora è stato compito dei fotografi professionisti: quelli veramente bravi sanno fino a che punto spingersi nel mostrare ciò che l’occhio umano non può vedere. Inquadrare, scattare e condividere, significa affidare questa scelta a una macchina che, per quanto intelligente, resterà sempre artificiale.
L’ingenuo sogno degli occhiali a raggi x venduti su giornaletti pruriginosi forse non si avvererà mai, ma non è questo un passo in quella direzione?
*Il viaggio per partecipare alla presentazione del P30 è stato offerto da Huawei