In questi giorni di fase di 3 si parla sempre di più della applicazione Immuni, il cui utilizzo avrebbe dovuto costituire uno degli strumenti principali per contrastare la diffusione dell’epidemia da Corononavirus.
Se ne parla, appunto. Perché l’app che qualcuno avrebbe dovuto testare, produrre, e rendere disponibile mentre noi eravamo tutti diligentemente in casa, è stata rilasciata solo da pochi giorni ed è ancora in fase di test.
Io l’ho scaricata, per coscienza sociale, non comprendendo le preoccupazioni di coloro i quali – anche esponenti politici - hanno visto nella app un pericoloso attentato alla libertà personale ed alla propria privacy, portando avanti lo slogan “la libertà non è in vendita”.
Ascolta il podcast sul funzionamento di Immuni
Al di la degli slogan (privi di senso logico e giuridico) si è verificato un fenomeno curioso.
Da un lato si è risvegliata negli utenti la consapevolezza del valore la propria riservatezza e del patrimonio informativo che li riguarda, dall’altro gli stessi utenti attraverso i social ci informano sui loro spostamenti, su cosa gradiscono, cosa comprano, con chi sono sposati o che macchina hanno.
Da un lato si teme che la app Immuni non garantisca sufficientemente la privacy, dall’altro sui treni si sentono le conversazioni telefoniche di manager che discutono dei dettagli di una delicata trattativa o avvocati che fanno il resoconto di una udienza che discutono delle clausole contrattuali con un collega.
La domanda è: come mai la preoccupazione per la propria privacy viene fuori solamente quanto si chiede, su base volontaria di scaricare una applicazione che ha ottenuto il parere positivo del Garante Privacy, per una finalità generale quale la tutela della salute pubblica?
Dal momento che molte delle affermazioni di questi giorni (purtroppo anche da parte di soggetti dai quali per ruolo ricoperto e relativa responsabilità, ci si sarebbe aspettati di più) si basano sulla mancata conoscenza (ignoranza) del meccanismo di funzionamento della app, proviamo a fare chiarezza.
L’applicazione Immuni, a differenza dei social usati da milioni di utenti ogni giorno, è stata infatti progettata per garantire la privacy degli utenti in ogni passaggio
In primo luogo, dopo averla scaricata, la app associa al telefono (non alla persona) un codice casuale che cambia più volte nel corso del giorno.
I codici generati da ciascun apparecchio, vengono incrociati - attraverso il bluetooth - con altri codici generati da altri apparecchi, tenendo traccia di questo contatto.
È bene precisare che in queste operazioni di scambio non vengono memorizzate informazioni relative all’utilizzatore dell’applicazione né alla geolocalizzazione. Viene archiviata semplicemente l’informazione che due “codici” sono stati a distanza ravvicinata in un dato giorno.
Qualora un soggetto dovesse risultare positivo al Coronavirus, questo ha la “libertà” (che non è dunque in vendita) di condividere questa informazione o meno.
Nel caso in cui decidesse di condividere lo status di soggetto positivo, l’informazione che verrà immessa a sistema sarà: "Il codice XXY è risultato positivo al coronavirus” ancora una volta, senza associazione del dato alla persona fisica.
Il sistema in questo caso, avendo tenuto traccia dei contatti, sarà in grado di estrarre i codici che nel periodo di incubazione del virus, sono stati a portata di bluetoooth del codice risultato infetto, inviando un messaggio di possibile esposizione al virus. Finito.
Ai più attenti potrà essere utile sapere che i dati sono cifrati sia sullo smartphone che in trasmissione, che il soggetto che li raccoglie è il Ministero della Salute, per finalità di contenimento dell’epidemia del Covid-19 o per la ricerca scientifica e che qualunque dato sarà comunque cancellato al massimo entro la data del 31 dicembre 2020.
In conclusione, a mio parere, è più pericoloso avere un avvocato o un consulente maleducato che parla a voce alta sul treno che utilizzare la app Immuni e contribuire ad arginare il contagio da coronavirus.