Iniziamo con un aneddoto per raccontare chi è Franco Berardi “Bifo” alle generazioni giovani e meno giovani. Alcuni anni fa in una grande libreria di Berlino restai piacevolmente sorpreso dal numero dei suoi libri in esposizione, in inglese e non solo. Fui colpito però da una splendida raccolta di saggi di e-flux dall’emblematico titolo The Internet Does Not Exist.
In quella raccolta Bifo e altri grandi studiosi come Latour, Lovink, MacCormack tentavano di spiegare come l’utopia libertaria di Internet si stesse rivelando un grande bluff, un errore 404, un link spento. Era il 2015, sembra passata già un’era geologica e molta analisi critica di quel periodo sembra già sorpassata: la distopia potrebbe essersi avverata. Stiamo vivendo un nuovo ciclo in cui i continui scandali, come Cambridge Analytica e non solo, sembrano parte integrante del panorama mediologico, mentre il modello cinese del panopticon digitale avanza a larghe falcate anche nell’occidente (post) democratico.
Il discorso di Bifo non è mai stato semplice, i suoi concetti ricchi e complessi sono maturati in una lunga carriera di agitatore culturale e filosofo radicale, attraverso decenni in cui dalle radio libere si è passati alle tv di strada, poi a Internet e ai social media.
Il suo ultimo lavoro Futurabilità rappresenta un contributo eccezionale per capire la complessità dei nostri tempi e consiste in un saggio precedentemente edito in lingua inglese, oggi ampliato e aggiornato per NeroEditions.
La parola futuro appare nel libro 62 volte, la speranza 11 e l’amore 17 volte, la guerra invece ben 70 volte. Eppure definire apocalittico il lavoro di Bifo sarebbe un puro e banale gioco di riduzionismo. Una via d’uscita esiste e l’autore lo dice chiaramente; la parola realismo, che appare una sola volta nel libro, è quella più adatta a descrivere la sua visione.
Il dialogo con Bifo parte con una prima domanda su uno dei concetti di apertura di Futurabilità: il concetto di "cultura hipsterica" sintetizza bene lo slittamento mainstream di gran parte delle culture digitali.
E' ancora possibile immaginare Internet come luogo potenziale per lo sviluppo e l'aggregazione di desiderio, liberazione, rivolta? Oppure dobbiamo rassegnarci a vedere questo grande insieme di piattaforme e social network come qualcosa che sostituisce quello che fu la TV nei decenni passati?
Il focus della mia attenzione non è l’evoluzione della rete, ma l’evoluzione della mente umana. Internet è l’automa cognitivo, è il sistema delle piattaforme che automatizzano l’attività umana. E’ un sistema in evoluzione, naturalmente; nuove piattaforme emergeranno per una più esatta cattura automatica, ma il suo destino è definito: Internet funziona come rete di interconnessione tra la captazione di dati e l’emanazione di dispositivi di automazione. Dunque c’è poco da dire, sul piano filosofico a proposito dell’evoluzione di Internet. I
l tema che mi interessa è come reagisce la mente, l’evoluzione neurale, cognitiva, estetica e psichica. Questo è il campo la cui evoluzione non possiamo prevedere, il campo in cui tutto può accadere o non accadere. La relazione tra la mente e la mediasfera ha superato il punto di saturazione, ed è entrata nella dimensione della shit-storm. In questa situazione non c’è più nulla di giudicabile, nulla di razionalmente governabile.
La logica dell’automa (dell’info-automa in particolare) non è più correggibile da parte di un soggetto consapevole, perché il soggetto consapevole è sistemicamente cancellato per una ragione di temporalità: il tempo di esposizione agli info-flussi è troppo rapido per poter essere oggetto di riflessione cosciente. La shit-storm da iper-saturazione è condizione in cui tutto è perduto, perché è perduta la stessa possibilità di auto-coscienza del soggetto. Allora per immaginare un futuro della mediasfera occorre uscire dalla mediasfera, perché anche la possibilità di un’innovazione mediatica non sta più dentro il media. E dove sta? In termini evolutivi il genere umano è giunto ad un punto in cui solo un trauma può ricostituire le condizioni per il riconoscimento di sé, per l’auto-coscienza. Solo il trauma può funzionare come reset. Il tema interessante a questo punto è il trauma.
Psicomanzia sociale e futurabilità sono concetti che durante la lettura del libro mi hanno dato l’impressione di un tentativo di ricondurre l'analisi a una prospettiva storica. Se non conosciamo più il passato è ancora più difficile immaginare il futuro e questo mi sembra il grande problema delle nuove generazioni, cui manca una memoria storica a causa della compressione temporale dell'infosfera. Se effettivamente manca coesione fra le generazioni, è possibile formare un fronte di lotta comune? Ancora, è possibile trovare zone di dialogo tra sfruttati di ieri e di oggi?
Baudrillard, che sto rileggendo molto in questi giorni in preparazione di un convegno che si terrà in Inghilterra nella prima settimana di settembre, scriveva in The Vital Illusion che più si espande la memoria del presente, cioè quanto più l’attenzione è catturata dalla densità del flusso, tanto più si fa evanescente la memoria del passato e si atrofizza la memoria del futuro, la profezia, l’immaginazione.
La profezia è sostituita dalla prescrizione informatica, o dalla prevenzione, o meglio pre-emption. Non so cosa significhi: “fronte di lotta contro questo sistema”. La sola cosa su cui ci possiamo interrogare è la possibilità di autonomia, cioè la possibilità, e soprattutto il tempo, per collocarsi all’esterno dell’automa e del suo rovescio complementare, che è il corpo aggressivo, il panico.
Quanto al rapporto tra le generazioni la domanda che mi interessa è relativa alla generazione che Twenge definisce iGen nel libro Iperconnessi (Einaudi, 2018): può la generazione che ha acquisito più parole da un automatismo che dalla voce di una singolarità corporea sviluppare percezioni umane nei confronti dei suoi simili? Esiste ancora la capacità di percezione empatia dell’altro?
Altra domanda riguarda la parte del libro dove a un certo punto viene affrontato il problema del post-umano da un punto di vista antropologico, storico e filosofico. A mio parere ciò tende a scacciare ogni pulsione deterministica verso l'automazione e il progresso sociale visti come semplici atti macchinici. Oggi troppo spesso qualsiasi critica nei confronti del sistema anarco-capitalista digitale viene bollato aprioristicamente come luddista, tecnofobico, antiprogressista. In questo senso, è ancora possibile tornare a ragionare in termini più realistici, o questo dibattito è destinato a polarizzarsi ed esacerbarsi inutilmente?
L’accelerazionismo ha, se non altro, il merito di far fuori quel vecchio pregiudizio che identificava come luddista ogni messa in questione del capitalismo digitale, paradossalmente anarchico e insieme perfettamente codificato, determinato, gerarchico. Il problema è che l’accelerazionismo è assolutamente ambiguo sul punto decisivo: l’accelerazione si risolve linearmente in rovesciamento e liberazione? oppure è vero il contrario, e l’accelerazione è un’intensificazione dello sfruttamento che porta sempre più avanti, sempre più in alto il punto di (possibile, ma non necessario) rovesciamento? Questo rende l’accelerazionismo inutilizzabile politicamente. Esso ha una funzione meramente teorica di constatazione dell’effetto di accelerazione, e fin qui tutto è semplice. Ma quando si tratta di anticipare gli esiti dell’accelerazione, allora siamo al buio.
Nell'ultima parte del libro, dove si trovano interessanti episodi di storia recente e molti concetti che rimandano ad autori cari a chi si occupa di mediologia, come McLuhan e Baudrillard. Nell'ambito degli studi sulla comunicazione si è creato a mio avviso una sorta di bolla accademica e pop-culturale allo stesso tempo; sembra quasi che la voglia di essere a tutti i costi sul carrozzone socialmediatico porti a ghettizzare, se non a irridere, la teoria critica. Anche il recente caso della legge europea sul copyright digitale ha dato l’impressione che la battaglia per la libertà di informazione contro le elites tecnocratiche sia ormai data per persa in maniera scontata e quindi convenga adeguarsi. Esiste allora un margine per recuperare terreno sul campo critico o siamo destinati a uno sterile appiattimento verso l'egemonia digitale?
Il problema è che non so cosa si intenda con l’espressione: “teoria critica”. Se intendiamo qualsiasi cosa che stia all’esterno della mera descrizione apologetica, d’accordo. Ma il contenuto denso dell’espressione teoria-critica si è probabilmente dissolto con il dissolversi della critica come facoltà umana. La critica è capacità di discriminazione vero/falso, giudizio discriminante sugli enunciati. Ma questa capacità, questa competenza cognitiva che i moderni chiamarono critica richiede un certo rapporto tra il ritmo del flusso degli enunciati e il ritmo della ricezione-comprensione.
L’accelerazione ha distrutto la possibilità antropologica della critica come facoltà socialmente diffusa. La critica è ora privilegio di coloro che non sono coinvolti nel processo, e dunque possono ricevere comprendere elaborare i flussi mantenendosi al di fuori dei flussi medesimo. Il che vuol dire che la critica resta possibile solo se è inoperante. Non c’è più rapporto tra pensiero critico e politica. La pratica non può essere critica, perché non c’è il tempo di agire, se si pretende di criticare.