Una hit del 1985 dei quasi dimenticati Frankie Goes To Hollywood era accompagnata da un curioso video in cui Reagan e Beznev se le davano di santa ragione in un’arena piena di sabbia in mezzo a una folla urlante. La sfida a due degenerava in breve in una rissa tutti-contro-tutti. La canzone era ‘Two Tribes’ e voleva essere una metafora del destino di un mondo che poggiava sul delicato equilibrio della deterrenza nucleare. Se quel video fosse girato oggi, nell’arena ci sarebbero Donald Trump e Xi Jinping e il confronto sarebbe certamente meno muscolare, ma non meno letale. La cosa più inquietante, però, è che sarebbe surreale, ma non suonerebbe anacronistico. Perché, come ha riconosciuto il New York Times pochi giorni fa, oggi il mondo è diviso a metà dalla stessa cortina di ferro che ancora trent’anni fa separava Oriente da Occidente. Sono cambiati gli attori (e non tutti), ma non è cambiata la posta in gioco.
Fino alla fine degli anni ‘80 la contrapposizione è stata tra Occidente democratico ed Est autoritario, ma il valore in ballo era lo stesso di oggi: il diritto dei popoli allo sviluppo. Oggi questa parola viene spesso confusa con innovazione e ancor più spesso con innovazione tecnologica, tralasciando aspetti fondamentali come l’etica dell’intelligenza artificiale e il diritto alla privacy, ma tant’è: l’occupazione, il diritto alla salute, all’equità salariale e via dicendo dipenderanno sempre di più dalla loro trasposizione in potenzialità tecnologica e sempre meno dalla capacità dei politici di perseguire il bene della comunità.
Perché altrimenti il Congresso americano si sarebbe preoccupato da un pezzo di spacchettare monopoli come quello di Google e di Facebook come all’epoca fece con At&T. E, d’altra parte, gli stessi colossi si sarebbero mobilitati per arginare scommesse al buio come i ban, le blacklist e tutto quell’arsenale da guerra commerciale schierato dalla Casa Bianca di Trump.
L’imposizione di dazi su beni come abbigliamento, componentistica auto e alimentari ha un senso profondamente diverso da quello deciso sulla tecnologia invasiva. Quella tecnologia, cioè, che entra nel profondo della nostra quotidianità senza quasi che la notiamo e che con il 5G è destinata a essere ancora più pervasiva.
Nell’escalation tra Washington e Pechino che è sempre meno escalation e sempre più guerra guerreggiata, si vuole far credere che gli attori in campo siano solo Huawei da una parte e Trump dall’altra. Ma non è così: la Casa Bianca ha già fatto sapere di non vedere di buon occhio la presenza delle compagnie telefoniche cinesi e ha cominciato a fare pressioni sulla Commissione federale per le telecomunicazioni perché non abbiano più accesso alle reti statunitensi. La paura è, ancora una volta, lo spionaggio di Pechino ai danni di aziende e istituzioni americane. La stessa con cui è stata giustificata la guerra a Huawei.
In questa arena piena di sabbia in cui Trump e Xi se le danno di santa ragione, vanno colti segnali interessanti che vengono da un mondo molto particolare: quello del business degli smartphone. Durante in lancio degli iPhone 11, al di là delle sofisticatezze tecnologiche, a pochi è sfuggito che quello che veramente manca nella nuova serie: un modello 5G.
Non c’è casa cinese che non abbia un 5G in scuderia; Huawei ha addirittura presentato a Monaco il Mate 30 Pro versione 5G anche se non avrà la suite delle app di Google. La ragione dell’assenza di Apple dal panorama 5G è semplice da intuire: non ha senso sviluppare un telefono per una rete che non esiste.
Perché gli Stati Uniti sono ancora molto indietro nell’implementazione di una infrastruttura di nuova generazione, mentre Giappone, Corea del Sud e Cina procedono a marce forzate e la Svizzera è già pienamente operativa. Ericsson e Nokia, aziende praticamente scomparse dal mercato degli smartphone, sono gli unici veri competitor di Zte e Huawei che però sono iperattive nella produzione di cellulari sempre più performanti. Quindi, riassumendo, uno dei tre grandi attori del mercato degli smartphone non è ancora nella gara del 5G; due dei quattro sviluppatori di reti non producono cellulari e tutti quelli cui manca qualcosa si concentrano in Occidente.
Tempo fa un manager di Zte ebbe a spiegare perché, secondo lui, i timori sulla sicurezza sbandierati dagli Stati Uniti sono infondati. “A noi non interessa spiarvi” disse, “vogliamo solo vendervi antenne”. E se il business è la principale spinta di un’azienda di Stato come Zte, figurarsi per Huawei, che – almeno sulla carta – è interamente privata. Tanto che di recente Ren Zhengfei, il padrone della compagnia, ha detto di essere disponibile a vendere tutto il pacchetto di codici e brevetti a un’azienda occidentale perché sviluppi la rete 5G liberando finalmente il campo da ogni sospetto sulla cybersecurity.
Un colpo di teatro, una mossa astuta cui fanno eco le parole dette dal responsabile per l‘Europa di Huawei a margine del lancio del Mate 30: “Noi vogliamo solo connettere la gente perché nessuno resti indietro, nemmeno i più svantaggiati”. E ha annunciato che Storysign, l’applicazione che il colosso cinese ha sviluppato per permettere ai bambini sordi di imparare a leggere usando uno smartphone, sarà disponibile per iOs, il sistema operativo di Apple e anche in inglese americano.
Insomma, sul questo fronte della guerra commerciale tra Usa e Cina finora gli unici a perdere davvero sembrano essere gli utenti cui viene negato l’accesso a parte delle migliori tecnologie disponibili. E' ancora da vedere se l’intransigenza di Trump finirà per premiare, ma un risultato lo ha ottenuto: regalare a Huawei, un’azienda che persegue il profitto peraltro con uno Stato – e che Stato! – alle spalle, l’aura dell’eroina. E pure filantropa. Ci voleva talento.
@ugobarbara