Nel luglio 2013, con una metafora brillante argomentata su una pagina intera della ‘Stampa’, Silvia Ronchey attribuiva al dio Mercurio, l’Ermes greco, il celeste dominio del web: “il signore della comunicazione istantanea, il dio che ha le ali sull’elmo e nei sandali, l’interprete (da lui la parola ‘ermeneutica’), il mediatore d’affari, il protettore del commercio ma anche il patrono dei ladri.
Ermes è senza dubbio il dio della Rete”. Aggiungeva però che “la nostra psiche collettiva soffre di un’intossicazione ermetica. Di un eccesso di Ermes”, perché lui “ladro si vendica sottraendoci l’unico appannaggio che abbiamo: il tempo. O, più ancora, la cognizione di cosa sia il nostro tempo”.
Più di quattro anni dopo, fine 2017, un altro autorevole intellettuale, Roberto Calasso, ha richiamato nel saggio ‘L’innominabile attuale’ lo stesso dio e la medesima metafora per riflettere su web e digitale: “Accerchiando il pensiero, l’informazione tendenzialmente lo soffoca. E’ una inflazione di Hermes”. Mutilato è però il dio che adduce le anime “al regno di ogni invisibile”.
Ciò che ne residua è “un Hermes beffardo e truffaldino, prodigo di doni avvelenati. Primo fra questi è la promessa di sbarazzarsi degli intermediari”. Difatti “disintermediazione”, sottolinea Calasso, è il “termine fascinoso” che si profilò all’alba del mondo digitale: l’impressione cioè di agire in prima persona. E “se questo valeva per un viaggio o una prenotazione di albergo, perché non doveva valere anche in politica?”. Ma “l’odio per la mediazione”, avverte, “è fatale per il pensiero”.
Leggi anche: Il diritto/dovere di essere sconnessi - di Riccardo Luna
Perché si ha l’illusoria impressione di sostituirlo, Calasso già affermava nel precedente ‘L’impronta dell’editore’, con lo strumento che promette “l’accessibilità immediata di tutto”: il device, che “tende così a diventare un cervello-ombra, bidimensionale e privo della spiacevole consistenza di mucillagine che caratterizza il cervello umano”.
Certo è che non si può litigare con un dio. Rimuoverlo neppure: il prezzo, ammonì Hillman, sono le nevrosi ed è Ermes, tra l’altro, che segna i confini tra salute e paranoia. La terza, auspicabile possibilità è farci pace e la riconciliazione avviene con lo stesso strumento di quel dio: l’intelligenza.
C’è un libro, quasi un ricettario che suggerisce il metodo: ‘Come diventare vivi’ di Giuseppe Montesano (Bompiani, 2017) ,‘vademecum per lettori selvaggi’ perché proprio nella lettura trova la chiave per riappacificarsi con Ermes, il web e i device senza vagheggiare una mitica (e inesistente) età dell’oro analogica, però restando immuni dall’infatuazione che il nuovo sia per forza e in quanto tale più bello.
Si tratta, dice Montesano, di scendere dal surf del distratto tipo di lettura del social web. E’ necessario ritrovare voglia e spazi per disconnettersi e tuffarsi nell’acqua dell’unitasking, della lettura verticale, dell’ascolto, della visione profonda per fugare lo spettro dell’analfabetismo mentale e emozionale. Sperimentare. Ma come? “Provando a leggere con attenzione Le affinità elettive, i grandi romanzi di Simenon e I fiori del male, provando ad ascoltare in profondità la Sonata per pianoforte op.109 di Beethoven, 21st Century Schizoid Man dei King Crimson e il preludio del Lohengrin di Wagner, provando a guardare in profondità I Sette Palazzi Celesti di Kiefer, la Nascita di Venere di Botticelli e tutta l’opera di Max Ernst, e provando a pensare in profondità anche solo poche pagine di Platone, Nietzsche, Spinoza, Freud, Debord”.
Leggi anche: L'improvviso declino degli Internet caffé - di Riccardo Luna
E’ la “lettura selvaggia” che scongiura “il declino emotivo e cognitivo” e soprattutto fa “diventare vivi”, riportando al cervello, non delegando agli algoritmi sul device, esperienze, riflessioni, pensieri e ricordi. “In questo momento – racconta Montesano – milioni di padri e madri stanno riuniti con i loro figli a tavola o in qualsiasi altro posto e hanno deciso di parlare con i figli, e dopo mezz’ora sollevano gli occhi appannati dagli smartphone e si accorgono che i figli non ci sono più, ma loro non hanno il tempo di pensare alla fuga dei figli perché devono sapere se Z ha risposto a X e come mai Y ha detto di C quelle cose e perché C ha lasciato K e per chi e così via”.
Scendere da questo surf è necessario per recuperare il tempo che Ermes, come notava la Ronchey, ci ha rubato e per reintegrare il dio stesso. Perché lui stesso, signore della velocità di parola, sapeva dolcemente utilizzare la lentezza. Lo fece trasformando il guscio della tartaruga in uno strumento musicale: “Ermes, il primo poeta, insegna che l’arte nasce dalla lentezza e che solo la la lentezza della tartaruga, che è all’origine dell’arte, può compensare la velocità della connessione – logica, analogica, tanto più digitale. Solo nelle risonanze profonde del suo guscio vibra il vero messaggio”, concludeva quell’articolo su ‘La Stampa’.
Si tratta, con una metafora di Montesano, di riaccendere “una candela nella notte”. E’ il tremolio di fiamma che ispirò un titolo all’epistemologo Gaston Bachelard e alimenta un filosofo à la page come Byung-Chul Han, sudcoreano docente in Germania, studioso della “società della stanchezza”: “Il medium dello spirito è il silenzio, che è chiaramente distrutto dalla comunicazione digitale”. Il professor Han osserva pure che la “luce uniforme, piatta, trasparente” dello smartphone distrugge anche l’Eros, perché non si fa “medium del desiderio: la trasparenza significa la fine del desiderio”. E’ una luce di candela, a dispositivi spenti, che può insegnare a usarli meglio. Senza distruggerli, senza esserne distrutti.