La mascherina, nuovo oggetto global, da tutti ambita per potersi difendere dal coronavirus, sta forse diventando il simbolo della paura e dell’ansia provocate dalla pandemia.
Cosa si cela realmente dietro la mascherina, ci proteggiamo solo dal virus o anche da noi stessi, dalle nostre paure, dai nostri limiti, dalla nostra incapacità di agire e risolvere o non rappresenta anche un po’ il nostro desiderio di nasconderci?
E’ l’ultima trasformazione di un’oggetto presente da sempre in tante culture, utilizzato fin dalla preistoria per rituali religiosi, nelle rappresentazioni teatrali, indumento utilizzato per coprire l’intero viso o parte di esso, nel '700 nei salotti chic nere o in rigido cotone bianco come quelle ritratte dal Longhi nei suoi bellissimi quadri per garantire mistero e anonimato.
Le mascherine si sono diffuse in Cina, Hong Kong e in gran parte dell’Asia fin dal 2002, dopo l’epidemia della Sars, indossate come segno di cortesia e protezione verso gli altri e allo stesso tempo come protezione dall’inquinamento atmosferico. Ora con il Covid 19 sono diventate indispensabili e c’è sempre più gente che le indossa.
Già radicate nella cultura asiatica si sono molto rapidamente diffuse anche in Europa: allo stato attuale solo in Italia ne serviranno 90 milioni al mese. Una richiesta elevata che si scontra con un'offerta contenuta.
Celebrità, modelle e attrici hanno pubblicato sui social media le loro foto indossando mascherine. Non c’è quindi da meravigliarsi che il fashion system abbia raccolto l’opportunità offerta da questo nuovo accessorio che così bene incarna l’identità di questo momento storico, e che moltissime aziende anche in Italia, si siano messe in moto per produrle. Di tutti i tipi e per ogni esigenza; strettamente sanitarie ma anche logate, ricamate, colorate o stampate. Insomma un nuovo oggetto decorativo da portare ovunque e tenere poi in borsetta.
Oggi, per esempio, possiamo trovare pagine e pagine di mascherine per il viso sul sito di vendite online Etsy, anche se molte sono solo decorative e non hanno una funzione sanitaria.
Le mascherine perlopiù prodotte per essere utilizzate una sola volta, allo stesso tempo, stanno diventando, però, anche un grandissimo problema per il loro smaltimento.
Le chirurgiche monouso rischiano di trasformarsi in un’altra catastrofe ambientale, come riporta il gruppo ambientalista Ocean Asia che recentemente ha condotto un viaggio sulle isole Soko a Hong Kong, dove ha trovato che un ‘enorme quantità di maschere chirurgiche si sta riversando sulla costa.
D'altronde i numeri parlano chiaro, riferisce Ocean Asia, e se consideriamo una popolazione di sette milioni di persone, per esempio solo quella di Hong Kong, che indossa più maschere al giorno, la quantità di rifiuti generati sarà evidentemente ingente. Molte di queste mascherine sono realizzate in materiali sintetici non biodegradabili, altre con polipropilene, fibra chimica, dalle importanti caratteristiche fisico-chimiche, ma che non degrada molto velocemente o trattate con sostanze chimiche inquinanti.
Queste mascherine quindi potrebbero andare ad aggiungersi alla plastica già molto presente nelle nostre acque e anch'esse, come il pet, se ingerite da una tartaruga o da un altro animale potrebbero causarne la morte.
Certamente occorrerebbe che la Cina, come tutti i Paesi produttori di mascherine “usa e getta”, si occupasse anche del problema dello smaltimento con la stessa celerità con cui si sta organizzando per una produzione massiva.
In Italia sono molte le realtà tessili grandi e medie, dal Nord al Sud, che si sono attivate per convertirsi e produrre rapidamente i tanto necessari presidi sanitari. La differenza è che parte delle mascherine “Made in Italy”, diversamente da quelle prodotte in Cina, non sono monouso ma sono riutilizzabili e lavabili.
Per citare solo qualche esempio: sono realizzate in cotone Steff (non trattato con pesticidi) con un trattamento idrorepellente antigoccia, utilizzabili più volte, quelle prodotte dal gruppo Miroglio di Alba, grande azienda del tessile e del retail; in cotone lavabile a 90 gradi quelle prodotte e donate in Calabria dalla sartoria di abiti da sposa di Graziella Lombardo; in cotone e trattate al chitosano (sostanza bio-based, di origine naturale ottenuta dai residui dello scheletro dei crostacei) quelle prodotte dal gruppo Canepa, azienda leader nella tessitura serica di fascia alta e nella produzione di tessuti pregiati in fibre naturali, in collaborazione con una tessitura del Salento.
Sono, poi, in canapa (naturalmente antibatterica) quelle prodotte da Maeko, azienda specializzata nella produzione di filati e tessuti naturali (come canapa, soia, ortica e bambù) nel segno della sostenibilità ed inviate al policlinico di Cagliari; anche il marchio Drome, sta realizzando mascherine chirurgiche in cotone ed infine ModaImpresa di Miranda (Isernia), si è attivata per produrre 10 mila mascherine al giorno riutilizzabili con filtro.
Insomma, come ha annunciato il commissario per l’Emergenza Coronavirus, Domenico Arcuri, già nei prossimi giorni arriveranno in diffusione 45 milioni mascherine prodotte da un consorzio di imprese della moda e del tessile, coprendo così la metà fabbisogno mensile.