Vivere in Italia e non essere cittadino italiano vuol dire vivere in una perenne condizione di ospitalità. Vuol dire non poter partecipare appieno alla vita di questo Paese: non si può votare, non si può essere eletti, fino a qualche anno fa non si poteva partecipare nemmeno ai concorsi pubblici e ancora oggi tante professioni sono proibite. Vuol dire non poter partire con i propri compagni di scuola in gita a Londra. Vuol dire scoprire di essere stranieri un giorno qualcuno, magari a dodici anni. E soprattutto vuol dire correre ogni volta in questura per rinnovare un permesso di soggiorno. Al minimo inghippo, perché il reddito non è abbastanza corposo o perché è finito il periodo per il permesso di studio, salta tutto. E ci si ritrova a essere irregolari. Dei cittadini fantasma che non hanno alcun diritto.
Per questo la riforma della cittadinanza è una battaglia di civiltà. Una legge necessaria che dopo due anni dall'approvazione alla Camera dei deputati, il 13 ottobre 2015, continua a slittare nel calendario dei lavori del Senato. Dall'estate all'autunno all'inverno. E forse non arriverà mai perché per molti, di centrodestra, "ci sono cose più importanti da discutere" e per altri, anche di centrosinistra, "è una cosa giusta ma nel momento sbagliato". Insomma lo Ius soli potrebbe segnare la fine di questa legislatura, anticipando le elezioni di qualche mese. Eppure "non è una cosa importante": riguarda solo la vita di oltre 800mila persone.
Quasi un milione di giovani nati e cresciuti in Italia che attendono di essere riconosciuti dallo Stato italiano. Questo significa, prima di ogni altra cosa, non sentirsi più stranieri. Non dover dimostrare nulla a nessuno e non doversi continuamente difendere dalla campagna populista di chi sullo "straniero" sta costruendo un improbabile programma elettorale.
Intanto è necessario fare chiarezza su cosa prevede la riforma dello Ius soli: non si regala nulla a nessuno. Chi nasce in Italia da genitori stranieri che hanno un permesso di soggiorno di lungo periodo, e quindi vivono e lavorano qua da almeno cinque anni, può ottenere la cittadinanza. I ragazzi che arrivano in Italia invece prima dei dodici anni potranno ottenere la cittadinanza una volta completato un ciclo di studi. Dunque nessuna invasione, nessuna sostituzione identitaria. Si tratta di un semplice riconoscimento di persone che già fanno parte di questo Paese. Studiano, lavorano e contribuiscono al futuro di tutti noi. Dovrebbe essere lungimiranza politica. Ovviamente si può mettere tutto in discussione ma i numeri dell'Istat sono oggettivi e facilmente consultabili.
Io sono uno di loro. Sono nato in Marocco 28 anni fa e sono in Italia da 18. Non sono ancora cittadino, e non credo ci sia qualcuno che possa mettere in dubbio la mia italianità. Avrei potuto chiedere la cittadinanza (la legge attuale prevede come requisito i dieci anni di residenza) ma non l’ho fatto perché avrei dovuto sopportare un’infinita trafila burocratica e, soprattutto, attendere quattro anni per vedermi riconosciuto uno status che nessuno mi dovrebbe negare. Ecco perché approvando questa riforma il Parlamento italiano dimostrerebbe di essere all’altezza delle sfide di questa nuova Italia che molti ancora non vogliono riconoscere, pur incontrandola ogni giorno. E se dovesse slittare alla prossima legislatura vorrà dire che non verrà approvata perché il coraggio non dipende dall’opportunità elettorale.