Negli ultimi anni, in Italia ma soprattutto in Sicilia, si fa un gran parlare dei cosiddetti "grani antichi”, ma nell'opinione pubblica perdura una grande confusione su cosa siano veramente. Quindi, prima di parlarne, bisogna fare un passo indietro nel tempo e andare a rivedere brevemente la storia del genere Triticum, a cui appartengono le diverse specie di frumento.
Nella civiltà Mediterranea l’uomo ed il frumento, da circa diecimila anni, si sono coevoluti, hanno cioè condiviso il loro percorso evolutivo, da quando l’uomo, divenuto agricoltore, passò da nomade a stanziale e cominciò a coltivare, insieme all’orzo, il farro monococco (Triticum monococcum subspecie monococcum) e, in seguito, il farro dicocco (Triticum turgidum subspecie dicoccum), tutte forme di Triticum “vestite”, in quanto, dopo la mietitura, le cariossidi (ossia i chicchi) rimangono strettamente racchiusi da rivestimenti esterni chiamati glume e glumette che, pertanto, necessitano di un processo di “svestitura” prima della macinazione.
I Triticum coltivati (quasi sempre a seme nudo e che rimane sulla spiga) derivano da precedenti forme selvatiche che, oltre ad essere a seme vestito, a maturità lasciavano cadere a terra il seme. Insieme ai reperti di studi archeobotanici, che testimoniano la coltivazione di questi tre cereali in alcune regioni dell’Italia centro meridionale durante il Neolitico inferiore, sono state rinvenute anche testimonianze della presenza di frumenti paragonabili ai frumenti nudi di tipo turgido/duro o estivo/compatto.
È nell’età del Bronzo che la cerealicoltura si orienta sempre di più verso la coltivazione dei frumenti esaploidi (ossia con sei copie di ciascun cromosoma), che si presentano nudi (cioè privi di rivestimento) e simili agli attuali grani teneri, probabilmente per la loro maggiore produttività e capacità di adattamento alle condizioni pedoclimatiche di coltivazione rispetto alle specie diploidi - cioè con due copie di ciascun cromosoma – come il farro monococco e tetraploidi – cioè con quattro copie – come il farro dicocco. Le diverse specie selvatiche del genere Triticum si sono evolute dapprima in modo naturale e, successivamente, mediante selezione empirica operata dall’uomo. Quindi, in senso stretto, il farro monococco e il farro dicocco sono i veri grani antichi che accompagnarono la transizione dell’uomo da cacciatore-raccoglitore ad allevatore-agricoltore.
Le "popolazioni locali" o "varietà locali", spesso indicate anche con il termine landraces, sono state coltivate nel corso dei secoli e sono state sottoposte ad una selezione, sia consapevolmente che inconsapevolmente, da parte degli agricoltori ed hanno rappresentato il materiale vegetale coltivato fino agli inizi del XX° secolo. Successivamente, in Italia, grazie al lavoro di Nazareno Strampelli, considerato il padre del miglioramento genetico del grano in Italia (e non solo) e di altri valenti genetisti fra cui Ugo De Cillis, che operò soprattutto in Sicilia, le varietà locali iniziarono ad essere migliorate geneticamente mediante programmi pianificati di incrocio e successiva selezione, che hanno portato allo sviluppo di varietà che oggi vengono definite “storiche o d’epoca”.
A Rieti, nel 1920 Strampelli, ottenne per incrocio e selezione genealogica, Ardito, il primo frumento tenero precoce, resistente alle ruggini e all’allettamento (cioè al coricamento a terra delle piante). A questa prima varietà, che riscosse subito un notevole successo sia in Italia che all’estero, ne fecero seguito altre, dotate di caratteristiche simili tra le quali Damiano, Mentana, San Pastore, Villa Glori, tutte protagoniste della cosiddetta “Battaglia del grano”. Invece, sul fronte del frumento duro, Strampelli - lavorando sulla selezione genealogica della popolazione nord-africana “Jenah Rhetifah” - nel 1915 selezionò a Foggia la varietà Cappelli (tuttora iscritta al “Registro Nazionale delle varietà di specie agrarie”) che ebbe grande fortuna grazie alla sua rusticità, alla sua ampia adattabilità a diversi ambienti di coltivazione ed alle ottime caratteristiche qualitative della sua semola, tanto da arrivare a coprire fino al 60% della superficie italiana a frumento duro ed essere coltivata quasi ininterrottamente dal dopoguerra fino ai giorni nostri. Infatti, è stata per oltre 40 anni la varietà di frumento duro maggiormente coltivata in Italia e il CREA – , che ne è anche il costitutore - ha la responsabilità del mantenimento della sua purezza genetica.
Inoltre, il Cappelli è il parentale di molte delle moderne varietà di grano duro. Quasi contemporaneamente, in Sicilia, partendo da popolazioni tunisine (Mahamuodi, Linea 74, Linea AP), sono state ottenute due varietà molto simili al Cappelli: il Bidì (dal nome dell’omonima popolazione tunisina, probabilmente derivante da B.D., iniziali francesi di blé dur [grano duro]), selezionato dall'Università di Palermo e il Margherito, costituito dall'Università di Catania (il nome deriva dalla contrada Margherito del comune di Ramacca, [Catania], dove fu coltivato la prima volta).
Il Bidì e il Margherito (quest'ultima varietà non ancora iscritta al Registro Nazionale delle Varietà da Conservazione delle specie agrarie e delle specie ortive), dal punto di vista biologico e morfologico sono identiche al Cappelli, tanto che il De Cillis, nel suo libro "I Frumenti Siciliani" del 1942, le classifica unitamente, separandole solo per il nome. Le uniche differenze sostanziali tra le due "varietà locali" siciliane riguardano la precocità di spigatura e di maturazione, grazie alle quali si sono diffuse diversi anni prima del Cappelli in ambienti differenti: il Bidì, più tardivo, in alta collina o montagna e il Margherito, più precoce, in bassa collina e in pianura.
Successivamente, presso la Regia Stazione Sperimentale di Granicoltura per la Sicilia "Benito Mussolini" di Catania, diretta dal prof. Ugo De Cillis, furono effettuati degli incroci tra il frumento palestinese Eiti e il Cappelli e, per diversi anni, furono portate avanti e studiate una ventina di linee, di cui soltanto due furono poi selezionate e testate in vari ambienti siciliani. Nel 1969, Felice Casale, ricercatore della suddetta Stazione Sperimentale, costituì le varietà Capeiti 8 (nome derivante dalla composizione delle prime due lettere dei nomi dei parentali utilizzati) e Patrizio 6 (nome di suo figlio), pietre miliari della durogranicoltura italiana di quegli anni. Maggiormente precoci e produttive, più basse e resistenti all'allettamento, furono proprio loro, dopo decenni di dominio incontrastato del Cappelli , a segnarne l'inizio del declino. Queste "varietà storiche", inoltre, erano (e sono tutt'oggi) a duplice attitudine: infatti, si prestano molto bene non solo alla produzione di pasta, ma anche a quella di pane di grano duro e di altri prodotti da forno dolci e salati.
Oggi, il termine “grano antico” è spesso utilizzato in modo improprio in quanto riferito sia a "popolazioni locali", sia a “varietà storiche. È molto adoperato nel marketing che lo associa a “più sano e nutriente” e a “prodotto locale”, seguendo le sollecitazioni che arrivano dai consumatori sempre più attenti all’aspetto salutistico e nutrizionale dei prodotti alimentari e, nel caso specifico dei grani, alla loro presunta minore capacità di indurre intolleranza al glutine. Inoltre, se consideriamo che in Italia i primi reperti riferiti alla raccolta dei cereali risalgono tra i 7.300 e i 6.500 anni fa, dire che un grano è antico solo perché ha 100-150 anni, sembra francamente un’esagerazione!
Nel lungo percorso evolutivo del genere Triticum e della sua domesticazione, la Sicilia è stata da sempre tappa fondamentale di passaggio di svariati frumenti. Il grano ha trovato nell'Isola le condizioni ambientali per fissarsi in oltre una cinquantina di varietà locali ben precise, che raccontano cinquanta nomi, cinquanta storie, cinquanta luoghi e che hanno ancora molto da svelare a quella parte dei consumatori italiani che le sta riportando in tavola. Grazie al lavoro di raccolta e conservazione del germoplasma siciliano di frumento da parte di alcuni studiosi, un gran numero di varietà locali sono state salvate dal rischio di erosione genetica, consentendo in tal modo la loro riscoperta e valorizzazione.
Naturalmente, gli sforzi dei ricercatori e l’interesse dei produttori si concentrano sulle varietà più competitive sul mercato e che risultano già iscritte al "Registro Nazionale delle Varietà da Conservazione delle specie agrarie e delle specie ortive": si tratta di 14 popolazioni locali siciliane di frumento duro (Biancuccia, Castiglione glabro, Ciciredda, Faricello [sin. Regina], Gioia, Martinella, Paola, Perciasacchi [sin. Strazzavisazzi, Farrolungo], Russello [sin. Priziusa], Scorsonera, Timilia reste bianche, Timilia reste nere, Tripolino, Urrìa), 3 di grano tenero, sempre di origine siciliana (Maiorca, Maiorcone, Romano) e 2 varietà storiche (Bidì e Capeiti 8).
Tutti questi frumenti sono caratterizzati da altezza della pianta molto elevata (mediamente superiore a 150 cm), tardività di maturazione e bassa produttività (spesso producono meno della metà delle moderne varietà). Per contro presentano un buon valore nutrizionale e salutistico, traducibile in termini di elevato contenuto in: fibre, proteine, glutine, antiossidanti, vitamine e minerali e basso o bassissimo indice di glutine.
L'attività di ricerca svolta negli ultimi anni ha ampliato la ricchezza di informazioni sui materiali genetici raccolti. La caratterizzazione morfologica, genetica e qualitativa della collezione di germoplasma di frumento siciliano rappresenta un passo fondamentale per dare concreto valore alla loro diversità genetica. Ed è grazie ad un accurato lavoro di esplorazione, catalogazione e conservazione delle popolazioni locali di frumenti duri e teneri coltivati in Sicilia, iniziato dal De Cillis ad inizio del secolo scorso e continuato sino ad oggi dal personale della Stazione Consorziale di Granicoltura per la Sicilia, che è stato possibile studiare la loro variabilità genetica, attraverso l’applicazione di tecniche avanzate di analisi del DNA. L’approccio molecolare proposto dai ricercatorie pubblicato sulla rivista “Plants” permette di evidenziare la diversità genetica di popolazioni locali e varietà d'epoca in base a variazioni nell’assetto genetico, dovute a cambiamenti delle singole unità che compongono il DNA. Mediante l’uso di questi marcatori genetici, (definiti marcatori molecolari a singolo nucleotide) sarà possibile sviluppare metodologie innovative ad alta processività per la certificazione dei prodotti ottenuti da popolazioni locali e varietà storiche, lungo l'intera filiera, sia per salvaguardarne la sostenibilità economica sia per tutelare i consumatori da frodi alimentari.
Maria Carola Fiore, Ricercatrice CREA - Centro di ricerca Difesa e Certificazione
Alfio Spina, Ricercatore CREA - Centro di ricerca Cerealicoltura e Colture Industriali