Nel palazzo medioevale del governo catalano, la Casa dels Canonges, costruita nel Tredicesimo secolo a due passi dalla splendida cattedrale di Barcellona, un consigliere diplomatico fa sedere alcuni giornalisti di varie nazionalità (un britannico, una svedese, un belga, una romena, un lettone, un francese, un’italiana) attorno a un tavolino basso dove sono posate coppette di olive, “pan con tomate”, noccioline. Un cameriere versa nei bicchieri una bevanda a scelta fra vino bianco o rosso, acqua o birra. “Il presidente arriva, potete accomodarvi a tavola”.
L’intervista collettiva di 7 testate europee (fra cui l’Agi) con Carles Puigdemont comincia attorno alle 13,30 di venerdì 30 giugno. Fa caldo, i visitatori provenienti da Bruxelles hanno trascorso la mattinata visitando il bellissimo Palau de la Musica, nei giorni precedenti hanno avuto altri incontri con esponenti politici e della società civile catalana, quasi tutti a favore della scelta di Puigdemont di convocare, per il primo ottobre, un referendum sull’indipendenza.
Il 130/mo presidente del governo catalano, che 3 mesi dopo sarà “ricercato” con un mandato di arresto europeo emesso dai giudici di Madrid per “ribellione, sedizione e malversazione”, quel giorno è sorridente, calmo e determinato. Non mostra apprensione per quanto potrà accadere se va avanti con il suo progetto di tenere un referendum già bollato come “incostituzionale” dal governo e dal Tribunale costituzionale. “Non ci importa quello che Madrid farà per impedircelo, niente ci fermerà: il mandato che abbiamo ottenuto dai catalani è chiaro. E’ una questione di democrazia. Ho 54 anni, sono cresciuto in una dittatura: ora voglio vivere in una societa’ veramente democratica”.
Puigdemont compirà 55 anni il 29 dicembre, 8 giorni dopo le elezioni decise dal governo spagnolo per affrontare la crisi istituzionale scatenata dalla vittoria del “sì” al referendum “incostituzionale” dello scorso 1 ottobre. Per il momento è in Belgio, a disposizione delle autorità giudiziarie che devono decidere se rispedirlo in patria ad affrontare le gravi accuse che potrebbero anche portarlo a dover passare decine di anni in carcere.
"Nessuno ci fermerà"
Ma il 30 giugno, nella sala da pranzo del palazzo della Generalitat, mangiando un’ottima “paella”, non si pensava certo che la situazione sarebbe degenerata a tal punto. Puigdemont ha salutato i giornalisti nelle rispettive lingue, con un sorriso e una stretta di mano: è lui stesso un ex “collega”. La sua pettinatura sbarazzina da “quinto Beatles”, come dicono facendo riferimento alla sua passione per il rock britannico e al caschetto scuro, risale a oltre 30 anni fa, quando un brutto incidente stradale gli lasciò profonde cicatrici sulla fronte. Da allora, preferisce coprirla con i capelli, che oggi sono ancora folti e con pochissimi accenni di striature grigie.
A Barcellona è considerato un “outsider”, nonostante sia un partigiano della causa catalana fin dalla più tenera età quando nella cittadina natale di Amer, vicino a Girona, si fece cucire dalla nonna una bandiera a strisce gialle e rosse con la stella bianca in campo blu: la bandiera della Catalogna. L’élite indipendentista di Barcellona ha all’inizio guardato un po’ dall’alto questo “provinciale”, figlio di pasticceri, diventato sindaco di Girona e poi presidente della Generalitat catalana un po’ per caso. Il suo predecessore Artur Mas, anche lui sotto inchiesta giudiziaria per avere organizzato un referendum consultivo nel 2014, era invece un prodotto della borghesia industriale di Barcellona. Ma era soprattutto il delfino a suo tempo designato dello storico presidente Jordi Pujol, ora ottantasettenne e a sua volta recentemente coinvolto in uno scandalo per essersi arricchito effettuando frodi fiscali nell’esercizio delle sue funzioni.
Un esito molto diverso dalle sue previsioni
Come gli altri interlocutori di quei giorni di fine giugno (fra i quali il ministro degli Esteri Raul Romeva, che da fine ottobre si trova in carcere), anche Puigdemont ha voluto ricordare ai giornalisti di Bruxelles che i catalani sono da sempre convinti europeisti, dicendosi fiducioso del ruolo che l’Europa avrebbe svolto nella disputa con il governo di Madrid. Sono speranze che al momento paiono destinate a restare deluse, a giudicare dalle prese di posizione delle istituzioni Ue e dei paesi che ne fanno parte, tutte di sostegno al governo di Mariano Rajoy.
Durante tutta la conversazione di quel venerdì estivo, Puigdemont si è detto convinto che un voto per l’indipendenza avrebbe finalmente reso possibile “il dialogo con l’Ue e con la Spagna. Ci sarà un periodo transitorio, al termine del quale come sempre in Europa prevarrà la realpolitik: la Catalogna è una regione importante, vale il 2% del Pil europeo ed è destinazione di 70 milioni di turisti all’anno. Vogliamo continuare a contribuire allo sviluppo della Spagna”. L’esito delle sue scelte politiche è per ora molto diverso da quanto si immaginava, e ora il presidente destituito si trova ad affrontare la giustizia spagnola, in attesa delle elezioni del 21 dicembre.