Prima degli anni Duemila chi studiava cinese era considerato una sorta di folle, ma in realtà la vera pazzia consisteva nel fatto di non avere testi in italiano per studiarlo, dovendo così ricorrere a libri in inglese, francese o tedesco. Nella vita quotidiana non andava meglio: nel quartiere dove vivevo c'era solo un ristorante cinese e serviva solo involtini primavera congelati e gelato fritto, le scuole di arti marziali erano nei sottoscala delle palestre di pugilato; i testi di riferimento erano chiusi in biblioteche o in case di amici benestanti, quasi sempre in lingua francese.
Ora immaginate questo: a un certo punto decido di lasciare la maraviglia italica e vado in Cina. Studio, lavoro a Pechino, mi aggiro spedita tra grattacieli e i vicoli, viaggio in metropolitana e con treni super veloci. In tutto questo movimento scopro ben presto che i cinesi hanno tradotto molti degli scrittori e dei filosofi occidentali. E scopro che lo fanno da tempo. All'improvviso conto gli anni: ne sono passati dodici. Ho imparato la lingua, ho dimenticato – quasi – il prosciutto di Parma, Villa Pamphilj e più in generale l'Italia. Poi, rieccomi a Roma.
E mi sembra di esserci per la prima volta: su internet spopola la dieta taoista, le mie amiche fanno yoga e alcune di loro seguono dei guru italiani del centro Italia, a pranzo si mangiano alghe giapponesi e infilano semi nelle insalate. Mi dicono: è la globalizzazione, bellezza. Contemporaneamente sugli scaffali delle librerie, osservo i testi per lo studio della lingua cinese. Sono in italiano, ne faccio incetta, come fossero alghe giapponesi per l'insalata.
Tra i tanti testi – però – ce n'è uno che mi ha colpito più degli altri. Si tratta di Fili di Seta, Introduzione al pensiero filosofico e religioso dell'Asia, a cura di Donatella Rossi (Astrolabio Ubaldini, 32 euro). Sul tema, filosofia e religione in Asia, non mancano certo validi approfondimenti: fortunatamente i nostri studiosi delle religioni, precursori e cultori di inizio secolo, ci hanno lasciato un patrimonio inestimabile. Ma Fili di Seta è un testo innovativo e coraggioso, specie nel suo tentativo di non parlare solo agli universitari, ma a chiunque abbia sviluppato un interesse per il tema.
E vista la bulimia contemporanea per questo ancora esotico e «misterioso Oriente», averne una copia potrebbe aiutare a far luce su una materia complessa e intricata.
"Il titolo di questo volume Fili di seta, è stato scelto per tre ragioni: la prima, a ricordo del significato del termine sūtra, letteralmente "filo", attribuito alle opere canoniche e apocrife del Buddhismo, poiché secondo gli assiomi ontologico-metafisici di questa dottrina così preminente in Asia, sia l'essere sia la realtà ultima sono intessuti nell'ordito del Dharma; poi in omaggio all'opera delle figure spirituali famose o ignote che nel corso delle epoche percorsero e affrontarono le sfide delle estese tratte delle Vie della Seta animate dalla determinazione della propria fede; e da ultimo come aspirazione per gli allievi argonauti del tempo presente, che in virtù delle conoscenze acquisite potrebbero farsi testimoni di quell'intermediazione culturale che è e sarà sempre più cruciale e determinante per il futuro e il benessere di questo pianeta." (Donatella Rossi, tratto dalla prefazione, pagina 8).
Il pensiero cinese, e di conseguenza di molte regioni e paesi che hanno attinto dalla lingua della terra di mezzo, non ha avuto bisogno di porre come base del pensiero un io-soggetto, un Dio creatore, né la volontà del singolo individuo, ma bensì ha voluto concepire un mondo fatto di relazioni e trasformazioni; e l'impegno degli esseri umani è ed è stato quello di dipanarne il continuo rinnovamento.
Una visione, infatti, che ben si discosta da ciò cui noi occidentali siamo abituati.
“Del taoismo mi ha attirato la sua filosofia, il grande senso di libertà, la bellezza e la sottigliezza dell'estetica e anche della sua etica, e lo stesso posso dire del Buddhismo tibetano e in particolare per il Bön, tutti questi aspetti, in particolar modo il Bön antico, sono legati allo sciamanesimo e posseggono visione del mondo e dell’universo completamente diversa”. Così, Donatella Rossi, curatrice e docente di Religioni e Filosofie dell'Asia Orientale alla Sapienza di Roma, introduce il lavoro e le conseguenti scelte di curatela che sostengono tutta l'architettura di questo volume.
“Da quando sono stata richiamata in Italia, con la legge del rientro dei cervelli, insegno religioni e filosofie dell'Asia Orientale. Il problema si è sempre posto, la mia è una materia trasversale e copre tre curricula (cinese, giapponese e coreano, se non tibetano in certi casi) e si è sempre più reso necessario un tipo di testo che prima non esisteva, compatto, immediatamente fruibile, ma veramente allo stato dell'arte. Ho pensato di creare un compendio di saggi per ogni paese dove ogni saggio contiene una bibliografia specifica e molto dettagliata, cosicché chi vuole andare ad approfondire lo può fare in maniera indipendente”, afferma Donatella Rossi, provando a sintetizzare in poche frasi l'imponente lavoro.
“La sfida più grande è stata dare un'uniformità, poi ci sono state delle sfide tecniche, trasferire, ad esempio, gli indici in tibetano nel testo è stato molto complesso perché il software non li leggeva, giorni e giorni, ore ed ore a sudare e cercare di capire come fare, e poi delle sfide intime, più segrete”.
Coprire e tenere conto di tutte queste aree culturali insieme è un approccio pionieristico ma necessario. Non a caso, passando dall'India al Giappone, il lettore riesce a farsi un'idea precisa di quelle che sono state le evoluzioni delle dottrine filosofico-religiose, attraverso una scrittura e una struttura capace di passare dal generale al particolare, giocando sui rimandi inconsci.
Quello che emerge con evidenza fin dalle prime righe della prefazione, però, è una diversa attitudine all'argomento, continua Donatella Rossi: “Per me è fondamentale e l'ho specificato a tutti gli autori di evitare le superimposizioni culturali etnocentriche nell'analisi testuale e di dottrina. L'uso di certi termini nelle traduzione va affrontata continuamente in maniera critica. Ci vuole nella traduzione una grande sensibilità e un grande rispetto per il messaggio che deriva dal testo, si deve cercare di essere più vicini al senso, però per essere più vicini al senso, bisogna tradurre, tradurre e tradurre, ma anche interagire con gli esperti di queste dottrine e filosofie, perché soltanto così si evita di rimanere nella superficie”.
La partecipazione dei massimi esperti nella materia sia a livello nazionale che internazionale vedono, nomi di livello come Bruno Lo Turco, Antonietta L. Bruno e Fabrizio Pregadio, esperto di Taoismo. Dal suo saggio all'interno del volume, in particolare, emerge fin dalle prime righe il rigore delle ricerca filologica, capace di non ridurre l'oggetto di ricerca in categorie prettamente occidentali che ne devierebbero la sua originalità.
In Fili di Seta, inoltre e per fortuna, non è stato trascurato l'aspetto contemporaneo: sono presenti approfondimenti sullo sciamanesimo femminile in Corea e in Giappone oggi, arrivando all'importanza in Cina del taoismo e del buddhismo, realtà attuali e mai sopite nel corso dei secoli.
Tutto questo viene affrontato con precisione senza mai ridurre e iper-semplificare: “Bisogna essere sempre essere rispettosi delle origini e del lignaggio di queste dottrine non manipolarle, trasformandole facendole apparire qualcosa che non sono, non solo è una mancanza di rispetto, ma anche un'offesa per chi vuole approfondire la materia. Oggi, tutto può diventare merce e profitto, in questo caso anche le religioni orientali lo possono diventare, ma a questo livello non si può più parlare di orientalismo ma di commercializzazione che in fondo è ancora colonialismo”
Infine un aspetto più pratico: questo testo può servire a chi si occupa di mediazione culturale, a chi lavora nelle amministrazioni, negli ospedali, nelle carceri anche agli assistenti sociali. Perché le persone di altre culture, con altre dottrine filosofico-religiose, fanno già parte della nostra dimensione umana; uno scambio e una conoscenza reciproca è quanto mai necessaria: la «mediazione», infatti, non è solo linguistica, ma deve essere anche culturale.