Di Adolfo Tamburello*
Napoli, 04 gen. - È ben noto il contributo della xilografia giapponese alla stampa d’arte moderna mondiale, meno noto il ruolo d’avvio avutovi dalla pittura e dalla stampa policrome cinesi d’epoca Ming (1368-1644).
Al secondo Trecento la manifattura della carta contava in Cina un millennio e mezzo; la stampa vi era ancora più antica, nata com’era dalle prime stampigliature su tessuti, specialmente di seta, di sigilli e matrici di pietra, metalli, legno. Alle precoci e longeve riproduzioni su carta di incisioni o rilievi su pietra e metalli (il rubbing del lessico inglese) seguiva la xilografia coi primi testi impressi almeno dal secolo VIII (dal secolo XII la cartamoneta).
La xilografia rimaneva in tutto l’Estremo Oriente l’arte della stampa per eccellenza, a onta della calcografia (l’incisione su rame pure coltivata), e della stessa invenzione cinese dei caratteri mobili in ceramica, legno e metallo fin dalla prima metà del secolo XI (una data è il 1044), con l’edizione coreana del monumentale canone buddhista fra il 1237 e il 1251 e a cavallo dei secoli XVI-XVII le prime tirature di traduzioni e testi europei in cinese.
Rimaneva che la vecchia xilografia usciva vincente per destrezza e velocità degli intagliatori sulla “modernità” del monotype dei caratteri mobili. Matteo Ricci (1552-1610) lasciava scritto: “…quanto alla facilità e prestezza parmi che nell’istesso tempo o puoco manco che i nostri stampatori compongono et emendano un foglio, nell’istesso i loro intagliatori intagliano una tavola; e così costa molto manco stampare un libro a loro di quello che costa ai nostri”. Per altro Ricci non era tenero con la stampa cinese. Se ne riconosceva la priorità rispetto a quella europea (“La stampa tra loro è più antica che fra noi, poiché l’hanno più di cinquecento anni addietro”), stigmatizzava: “Con la grande facilità, commodi¬tà e libertà di stampar libri, i Cinesi, ciascheduno che vuole in sua casa, sono avidissimi di compor libri assai più che i nostri. E così, in sua proportione, sono molto più i libri che di novo si stampano ogn’anno tra di loro che fra nessuna altra natione. E conciosiacosaché a loro manchino le scientie, fanno libri di altre cose più inutili et alle volte nocive”. Forse deplorava in particolare le stampe erotiche e i libri pornografici che già circolavano in gran copia.
Erano stati molti i fattori che in Cina avevano fatto con precocità della stampa un’industria, precondizione l’organico sviluppo economico per la fornitura delle materie prime, dalla carta ai legni dei cliché ai pigmenti e i collanti per inchiostri e colori, ai metalli per strumenti, lastre e caratteri. A sua volta ingente e altrettanto organico lo sviluppo delle industrie e degli artigianati ormai industriali per il mercato dei prodotti finiti a intagliatori, incisori, disegnatori, compositori, stampatori, in un’organizzazione del lavoro che contava officine e stabilimenti lito- e xilografici, tipografie, vere e proprie case editrici con ampie reti di distribuzione; capillari librerie e venditori ambulanti che assicuravano la vasta distribuzione di libri, album, rotoli, stampe singole e in serie, compresi calendari e fogli augurali di nuovo anno. Molta pure la stampa periodica a cominciare dalle gazzette ufficiali.
Imprese di stato, imperiali, prefettizie e distrettuali, nonché di accademie e università, templi e santuari, molte private (commerciali e non) servivano un pubblico di lettori sempre più ampio grazie alla crescente istruzione scolastica e alla diffusione della cultura. Biblioteche e scuole erano rifornite da acquisti diretti e omaggi, e il prestito librario raggiungeva remoti villaggi.
Molta editoria ereditava e proseguiva quella Song e Yuan specialmente di carattere scientifico, dalle riedizioni imperiali di opere matematiche quali il Suanxue qimeng e il Siyuan yujian dei decenni a cavallo dei secoli XIII-XIV a quelle agronomiche come il Nongshu del 1313, all’enciclopedico Yuhai di Wang Yinglin (1223-1296), all’atlante dello Yuditu di Zhu Siben (1273-1337) e molte altre.
Dall’epoca Song si perpetuavano anche alcune case editrici, ed edizioni e ristampe Song, Yuan e Ming raggiungevano lontani paesi e i circuiti commerciali con l’estero privilegiavano il Giappone, ove si venivano formando grandi biblioteche come per prima l’Ashikaga gyomotsu degli shogun coevi.La transizione in Cina da una dinastia all’altra toccava poco la continuità delle attività editoriali se non quelle soggette a rigorosa censura o che risentivano più direttamente degli indirizzi politici o simpatie dei regimi: per esempio, il patrocinio dato dagli Yuan alla stampa del Fozu lidai tongzai, la storia del buddhismo dalle origini al 1333, non si rinnovava sotto i Ming; d’altra parte, sarebbe vano cercare sotto patrocinio Yuan opere sulla classicità e il pensiero cinesi, che i Ming coltivavano di contro allo scarso interesse per la storia religiosa del paese. Le sole più impegnative imprese dinastiche editoriali in materia religiosa contavano il Tripitaka e il Daozang le cui prime edizioni risalivano a Yongle (1403-1424) e le ultime di Pechino erano rispettivamente quelle del canone tibetano del 1602 e di quello taoista del 1607.
Dai primi del Quattrocento lo sforzo titanico della restaurata Accademia Hanlin di raccogliere l’intero scibile cinese nello Yongle dadian realizzava una collezione di testi editi nei secoli ma non ripubblicabile per la sua mole. La prima edizione Ming di una “summa” di pensatori Song era a quanto sembra lo Xingli daquan del 1415, seguito dai Daquan dei “Cinque classici” (Wujing) e dei “Quattro libri” (Sishu) nei commenti dell’ortodossia neoconfuciana.
Editoria esposta a severa censura era quella clandestina delle sette o società segrete. e sempre a rischio quella privata dei manuali sessuali o, in ambito di pensiero. della cosiddetta “eterodossia” che colmava il razionalismo e il rigorismo etico confuciani delle istanze “libertine” in nuce dall’antico Mencio e sotterranee nei secoli, abbracciate dai vari gruppi Donglin, le “Foreste orientali” delle accademie piccole e grandi rianimate dall’epoca Song.
A fianco o in antitesi all’universalismo di Zhu Xi (1130-1200), capolista del cosiddetto neo-confucianesimo, riviveva l’intimismo di Lu Jiuyuan (1139-1193) aggiornato ai nuovi tempi da pensatori come Wu Yubi (1391-1469), Hu Juren (1434-1484) e Chen Xianzhang (1428-1500) per culminare con l’opera di Wang Shouren (o Wang Yangming, 1472-1528). Questa avrebbe avuto grande influenza sul successivo pensiero cinese ed estremorientale fino ai nostri giorni. Antecedente al magistero del nostro Hegel viveva una “destra” e di una “sinistra” di Wang Yangming, e la sinistra con pensatori come Wang Gen (1483-1541), Wang Ji (1498-1583), Luo Rufang (1515-1588), Li Zhi (1527-1602) dalle posizioni prossime a quelle di molti maestri chan e zen giapponesi dei secoli successivi.
All’editoria filosofica “eterodossa” imprimeva sviluppo forse anche la stampa su patrocinio delle casate principesche a vasta circolazione locale, regionale e nazionale. Questo è un nuovo campo di ricerca aperto recentemente in Occidente da autori come Lucille Cia e Jerome Kerlouegan, del cui ultimo alcuni saggi possono leggersi oggi anche su internet.
L’editoria dei principi, i vecchi wang, destituiti di poteri politici e militari ma moltiplicatisi in numero di casate per la longevità della dinastia, dava loro almeno dignità e prestigio culturali, vissuti com’erano per il resto un pesante fardello del paese. Era un’editoria che, se prediligeva stampe e ristampe di testi classici o rientrava in gran parte nell’erudito di una saggistica di loro collaboratori, prosatori e poeti, medici e farmacisti , amministratori e perfino militari, non esclusi concubine ed eunuchi, prediligeva anche opere di divagazione e lettura come l’antologico di prose e poesie, stampe d’arte, testi di pittura e calligrafia, manuali per inchiostri e pennelli.
L’editoria della narrativa e teatro, generi rimasti ai margini di alti riconoscimenti, salivano a grande popolarità soprattutto gestiti dall’editoria commerciale, alla quale l’imprenditoria di stato cedeva il passo dagli inizi del Cinquecento quando il capitale d’investimento dei possidenti fondiari e dei grandi mercanti si ingrossava con quello a partecipazione delle migliaia di eunuchi arricchitisi di beni immobili e mobili.
Accanto alla diffusione di una narrativa a circolazione soprattutto urbana dal genere rosa a quello erotico fino al poliziesco e al giallo, si imponeva la riproposta di una narrativa romanzesca “classica” dal Sanguozhi yanyi, il romanzo dei Tre Regni (di cui Mao Zongang aggiornava la versione forse di Luo Guanzhong (1330-1400) alla versione di Jin Shengtan del 1644 dello Shuihu zhuan (Sul bordo dell’acqua) sulle gesta di una banda di fuorilegge in ambientazione Song. Inframmezzate circolavano nuove stesure di altri famosi romanzi: il “Resoconto del viaggio a Occidente” (Xiyouji) attribuito a Wu Cheng’en (1506-1582) sulle memorie di viaggio del monaco Xuanzang (602-664), o, attribuito all’insigne letterato Wang Shizhen (1526-1590), il Jinpingmei (Fiori di pesco in un vaso d’oro), che sarebbe diventato il romanzo cinese più popolare in Occidente.
Per il teatro, testo d’autore vissuto a cavallo degli Yüan e dei Ming era il Pipaji (Racconto del liuto) di Gao Ming (1305-1370), un dramma con parti dialogate e cantate sul tema della lealtà e della pietà filiale. Tang Xianzu (1550-1617) componeva il dramma d’amore Mudanting (Il padiglione delle peonie). Un ruolo importante per tutta l’epoca occupava l’editoria linguistica e filologica. Il dizionario dello Zihui di Mei Yingzuo (1570-1615) presentava per la prima volta i caratteri cinesi ordinati secondo il sistema ancora in uso dei 214 radicali. La stampa scientifica e tecnologica annoverava le opere di matematica e musicologia del principe Zhu Zaiyu (1536-1611), il trattato farmaceutico e medico Bencao gangmu di Li Shizhen del 1602, l’enciclopedico Tiangong kaiwu di Song Yingxing del 1637; in campo geografico, la diaristica dei viaggi, fiorente in tutta l’epoca, culminava col monumentale trattato Xu Xiake youji di Xu Hongzu (1587-1641), che per la sua mole di oltre 440 mila caratteri poté essere pubblicato solo nell’inoltrato Settecento e fu volto in lingua moderna nel primo Novecento da Ding Wenjiang (1887-1936).
Un ruolo altrettanto importante detenne l’editoria nata dall’intervenuto incontro con l’Europa che produceva a vaste tirature i primi nuovi almanacchi e calendari. Alla collaborazione con alti funzionari cinesi e insigni letterati, come Yang Tingyun (1557.1627), Li Zhizao (m. 1630), Xhu Guangqi (1562-1633), erano dovute sia opere loro sia le traduzioni e le pubblicazioni di quelle scientifiche (e altre) di Matteo Ricci, compresi gli “Elementi di Euclide”, i brevi trattati di aritmetica e, in più edizioni, il famoso “Mappamondo” (Kunyu wanguo quantu) da lui disegnato e commentato. Un’attività che proseguì negli anni coi gesuiti successori di Ricci e gli intellettuali cinesi loro amici aperti alla cultura europea.
*Adolfo Tamburello già professore ordinario di Storia e Civiltà dell'Estremo Oriente all'Università degli Studi di Napoli 'L'Orientale'.
04 GENNAIO 2016
@Riproduzione riservata