Nel precedente “Antonio Montucci e l’avventura del dizionario cinese” è ricorso più volte il nome di Giuseppe Hager (1757-1819) come il primo avversario di Montucci per la compilazione e la stampa di un dizionario cinese bandito su volontarie sottoscrizioni.
Hager abbandonava per primo il terreno della contesa che era stata trasferita da Londra a Parigi e rientrava in Italia nel 1806 accettando la nomina a professore di Lingue orientali presso l’Università di Pavia, dove insegnava fino al 1809. Quell’anno le cattedre di lingue orientali erano soppresse nel Regno italico, e Hager ripiegava su un posto di “sottobibliotecario” che gli offriva la Biblioteca di Brera e che conservava tenacemente fino alla morte.
Lasciava manoscritto e rimasto inedito un Catalogo di libri orientali che si conservavano a Milano, mentre aveva continuato a pubblicare varie opere; fra il 1810 e il 1813 si era adoperato con le sue conoscenze nell’ambiente internazionale a procurare consulenze e collaborazioni a profitto degli Annali di Scienze e Lettere, curati in quegli anni da Giovanni Rasori, Michele Leoni e Ugo Foscolo. In particolare stabiliva contatti per fornire contributi stranieri in ambito sinologico da pubblicare sulla rivista, e si deve con tutta probabilità al suo interessamento se fu tempestivamente stampata a Milano nel 1812 in tre volumi, a cura proprio di Giovanni Rasori, la monumentale Ta-Tsing-Leu-lee o sia Leggi fondamentali del Codice penale della China.
Questa era l’opera con la quale due anni prima Sir George Thomas Staunton aveva presentato in lingua inglese da Londra all’Europa il diritto cinese attraverso la legislazione che l’impero Qing si era data fin dal 1647, tre anni dopo l’insediamento della dinastia mancese a Pechino, ed era la codificazione all’epoca ancora per gran parte in vigore.
George Thomas Staunton era il figlio di Sir George Leonard che era stato col padre in Cina a seguito della missione Macartney. Ancora bambino, aveva appreso un bel po’ di cinese durante il viaggio con gli interpreti sacerdoti del Collegio dei Cinesi di Napoli, e a Pechino aveva ben figurato a sfoggiare il suo già sicuro cinese all’imperatore Qianlong che rimaneva deliziosamente sorpreso e molto si complimentava con lui e il genitore. Continuava a coltivare il cinese prima nel viaggio di ritorno coi nuovi cinesi destinati a loro volta a entrare nel collegio napoletano e poi per conto proprio a Londra; era quindi assunto giovanissimo al servizio dell’East India Company in qualità d’esperto per la Cina.
L’opera dello Staunton, tradotta anche in francese nello stesso 1812, apriva in tutta Europa vivi interessi per il diritto cinese e promuoveva i primi studi di diritto comparato e, benché fosse solo una traduzione parziale del codice Qing, era più che informativa della legislazione vigente nell’impero.
La traduzione italiana di Rasori era preceduta e seguita dalle puntate Sul diritto penale della China, pubblicate anonime fin dal 1811 sui citati Annali di Scienze e Lettere, un lungo saggio che non era tuttavia opera di Rasori ma probabilmente di Foscolo, tanto da essere incluso nell’edizione milanese del 1822 delle Prose e versi foscoliani e loro successive raccolte, e v’è il legittimo dubbio che se Foscolo non ne fosse l’autore, ne era stato però l’ispiratore e il revisore.
Lionello Lanciotti dibattè l’attribuzione del saggio sul volume Cina del 1958 pubblicato dall’IsMEO di Roma con l’articolo “Il diritto cinese ed i suoi interpreti italiani nel 1800”, per tornare sull’argomento nella prolusione al Convegno Internazionale di studi cinesi di Venezia del 1976, i cui Atti erano pubblicati due anni dopo da Olschki.
Intanto gli studi di diritto cinese avevano avuto un decollo anche in Italia, e oggi sono molte le forze impegnate nel nostro paese per studiarvi quel diritto e portare in Cina anche il diritto romano. Un percorso lungo nel tempo quest’ultimo: lo illustra Lara Colangelo in “L’introduzione del diritto romano in Cina tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX: il contributo di Kang Youwei” sugli Atti del XV Convegno 2015 dell’Associazione Italiana di Studi Cinesi, a cura di Tommaso Pellin e Giorgo Trentin, in rete.
La legislazione Qing era stata giudicata eccellente dallo Staunton rispetto a quelle allora conosciute di altri paesi asiatici, benché la giudicasse molto viziata dall’imperante dispotismo del potere e da un deprecabile ricorso alle pene corporali e specialmente alla pena di morte. Un’eco di tale riprovazione era raccolta anni dopo in Italia dai terribili versi satirici di Giuseppe Giusti del 1833 nella sua ode La guillottina a vapore: Hanno fatto nella China/ una macchina a vapore/ per mandar la guillottina:/ questa macchina in tre ore/ fa la testa a cento mila/ messi in fila…
Degli studi di diritto cinese e comparato diventava un illustre esponente in Italia il fiorentino Alfonso Andreozzi (1821-1894). Andreozzi era stato a Parigi uno degli allievi italiani di Stanislas Julien. Avvocato e sinologo, uno dei primi ad approfondire da noi gli studi di diritto cinese direttamente su fonti in lingua, nel 1878 dava alle stampe Le leggi penali degli antichi Chinesi, presentando le prime traduzioni originali da testi antichi. Schierato contro la pena di morte a un secolo da Cesare Beccaria (1738-1794), Andreozzi disapprovava del sistema penale cinese non solo la pena di morte ma sia le pene corporali sia la tortura, non omettendo però di ricordare che anche in Europa la tortura aveva sostituito i “giudizi di Dio”.
Assertore della pena come “civile riparazione del danno per risarcire l’offeso, e la emenda morale del delinquente, per rassicurare la società”, pare invece condividesse del diritto cinese la differenziazione delle pene per uguali reità, sostenendo, come scrive Lanciotti, che “la giustizia pur essendo ‘uguale per tutti’ non può determinare pene per tutti uguali indistintamente, così come il medico non assegna identiche medicine per ogni malato della stessa malattia”.
In rete troviamo oggi, di Sandro Schipani (XXI secolo), anche “Diritto romano in Cina”.