Addio marxismo-leninismo, bentornata tradizione. Non è successa in un giorno e, soprattutto, non è mai stata ufficialmente annunciata, ma la sostituzione degli elementi fondamentali dell’ideologia comunista con i valori della tradizione confuciana è la tendenza che ha caratterizzato l’evoluzione del Partito comunista cinese negli ultimi 40 anni. Lo afferma Hugo de Burgh, professore di Giornalismo e direttore del China Media Centre dell’Università di Westminster di Londra, secondo cui questa traiettoria ha subito una particolare accelerazione durante la leadership di Xi Jinping. Come il mandato di Xi, questa tendenza è destinata ad essere riconfermata nel corso dello “shijiu da”, il XIX Congresso del Partito comunista cinese in programma a Pechino in questi giorni.
Programma quinquennale
Dalla Grande Sala del Popolo che si affaccia su piazza Tian’anmen saranno annunciate le linee guida e le parole d’ordine della politica cinese dei prossimi cinque anni e de Burgh scommette che un ruolo di primo piano sarà assegnato a quello che lui chiama “The Canon” e a cui in cinese si fa riferimento con il termine “guoxue” (letteralmente “studi nazionali”). Si tratta di tutto quel patrimonio culturale cinese che si fonda sul sapere filosofico, letterario ed etico di stampo confuciano: un sapere che ha caratterizzato l’identità cinese per più di un millennio e che, dopo essere stato combattuto e cancellato in epoca maoista tanto dal discorso politico quanto da quello quotidiano, è riemerso nella vita pubblica cinese dagli anni Ottanta del secolo scorso.
La riscoperta di Confucio
“Gli intellettuali progressisti in Cina hanno condannato Confucio per 70 anni: dalla caduta dell’impero, nel 1911, fino al 1980”, ha spiegato de Burgh durante una conferenza organizzata dal Contemporary Asia Research Centre dell’Università degli studi di Milano la scorsa settimana. “Il rigetto era dovuto soprattutto alla convinzione che il sapere tradizionale fosse l’ostacolo principale sulla strada della modernizzazione della Cina”. Solo con l’inizio delle riforme, in reazione agli anni del maoismo e al dramma della Rivoluzione culturale, i dirigenti comunisti hanno gradualmente ridato spazio a elementi della cultura tradizionale.
La filosofia del cacciatore di topi
“Il primo è stato Deng Xiaoping negli anni Ottanta: con la sua ‘filosofia del cacciatore di topi’, ha reintrodotto un approccio pragmatico e non ideologico alla politica, predicando che poco conta il colore del gatto, purché catturi i topi”. Jiang Zemin, il principale esponente della cosiddetta “terza generazione” di leader cinesi, “ha proseguito su questa strada del pragmatismo, allontanandosi sempre di più dalle rigidità ideologiche del marxismo-leninismo quando, con il suo ‘pensiero delle tre rappresentatività’, ha consentito agli imprenditori di essere membri del Partito”. Mentre con la “quarta generazione” di Hu Jintao “è stato riportato alla luce uno dei concetti più importanti del confucianesimo, quello di armonia, in chiaro contrasto con il principio comunista della lotta di classe”.
Con la leadership attuale, questo processo ha subito un’ulteriore accelerazione: “Xi Jinping è stato il primo segretario generale del Pcc a commemorare pubblicamente, nel 2015, il compleanno di Confucio. Ha visitato in veste ufficiale il luogo di nascita del filosofo, ed è il leader comunista che inserisce il maggior numero di citazioni confuciane nei propri discorsi”.
Cosa resta dell'ideologia comunista
Che cosa è rimasto allora, oggi, dell’ideologia comunista nel pensiero politico espresso dal Pcc? O, per dirla con de Burgh, che cosa è stato “buttato via” e che cosa “è sopravvissuto” del marxismo-leninismo nel “socialismo con caratteristiche cinesi”?
“Il Pcc ha rigettato l’utopia implicita nel pensiero comunista e il concetto di determinismo storico - afferma lo studioso -. Ha buttato via il principio della lotta di classe e la concezione negativa del mercato e dell’imprenditoria. Ha anche annacquato l’imperativo a eliminare tutte le religioni”, limitandosi a ostacolare quelle che potrebbero mettere in discussione l’ordine costituito. Qualcosa, però, è stato per salvato: “Sono vive la concezione delle leadership come avanguardia del popolo, la gestione dirigista dell’economia e l’identificazione dei media come strumenti al servizio della politica”.
L'eccezionalità cinese
A sostituire i dogmi del marxismo-leninismo sono le sempre più frequenti teorizzazioni della “eccezionalità” cinese: l’idea, cioè, che la Cina sia diversa da qualsiasi altra realtà e che non possa e non debba seguire ideologie politiche e modelli provenienti da altri Paesi.
Il sogno cinese
“Il ‘sogno cinese’ di Xi Jinping esprime di fatto la convinzione che non c’è alcuna ragione per cui il modello politico, sociale e culturale cinese dovrebbe essere meno attraente di quello, per esempio, degli Stati Uniti. Molti cinesi ormai hanno conosciuto da vicino la realtà americana e ne hanno visti i difetti, dalla violenza alle enormi sperequazioni sociali. Non è un caso che, secondo alcune ricerche, i cinesi che studiano o vivono negli Stati Uniti o in Gran Bretagna sono i meno attratti dai nostri sistemi”, dice lo studioso britannico.
Il fascino del guoxue
Si spiega anche così il fascino ritrovato dei guoxue, e il loro ritorno nel curriculum degli studenti cinesi. “Dal 2013 i libri del ‘canone’ confuciano sono stati inseriti nel gaokao (l’esame nazionale che i giovani devono sostenere al termine delle scuole superiori per poter accedere all’università). Mentre, dal 2014, il Ministero dell’educazione ha inserito i testi del ‘canone’ nei programmi scolastici obbligatori”.
L'educazione dei giovani
Non si tratta solo di assicurare un ritorno alle radici culturali del Paese, ma anche di diffondere tra i giovani concetti morali utili a riempire il vuoto lasciato dal venir meno dei valori comunisti. “Quello che il ‘canone’ insegna ai bambini cinesi è per esempio il rispetto per gli adulti, il dovere dei più grandi di prendersi cura dei più piccoli, e in generale l’idea che solo all’interno della comunità una persona acquista un senso e può svilupparsi in modo compiuto. È l’esatto opposto – sottolinea de Burgh - di quanto viene insegnato ai bambini occidentali”.