Addis Abeba e Riad hanno siglato un accordo per regolamentare il lavoro delle colf etiopi in Arabia Saudita. Messa così sembra una buona notizia. Cioè il lavoro delle donne etiopi che vogliono trasferirsi in Arabia Saudita per essere impiegate come domestiche sarà ben pagato e legale. Ben pagato, ossia 235 euro al mese a fronte di uno stipendio medio in Etiopia di 30 euro. Eppoi legale. Nel senso che viene legalizzata la possibilità delle famiglie saudite di avere delle “schiave domestiche” che spesso diventano schiave del sesso in un paese dove la donna è considerata poco più di uno zero. Se poi è un’immigrata ancora di meno. Di diritti non si parla.
Questo provvedimento riguarda almeno 100 mila giovani donne. Occorre ricordare che sono state numerose le denunce sporte dalle domestiche di tutto il mondo che hanno subito abusi, violenze, maltrattamenti in Arabia Saudita. Denunce che hanno portato l’Etiopia a vietare, nel 2013, l’emigrazione delle donne in Arabia Saudita, Libano, Kuwait, Qatar ed Emirati.
Oggi è lo stesso governo di Addis Abeba a legalizzare la schiavitù domestica. Il provvedimento, oltre a garantire uno stipendio “congruo” e l’emigrazione legale, non stabilisce nessun paletto sui diritti da garantire alle donne che continueranno a essere alla mercé degli harem sauditi. Ma ciò che sorprende di più è che questo provvedimento è stato adottato da un Paese, l’Etiopia, con l’unico presidente donna del continente, Sahle-Work Zewde, e dove il primo ministro Abiy Ahmed ha nominato un esecutivo che per la metà è composto da ministri donne. La presidente, nel momento della sua elezione, aveva promesso che avrebbe lavorato strenuamente per la parità di genere. Ebbene, forse, questo per lei è lavorare per la parità di genere.
Donne, Somalia (Afp)
Secondo il portavoce del ministero del Lavoro di Addis Abeba, Assefa Yrgalem, le 100 mila sedicenni che partiranno per l’Arabia Saudita saranno protette da una nuova legge anti abusi. Come osserva Mauro Suttora dalle colonne di “informazionecorretta.com”, non si capisce come questa “legge” possa essere applicata in un paese straniero. Insomma, sembra essere piuttosto un modo un po’ più trasparente per consentire alle giovani donne di lasciare un paese che stenta ancora a garantire una vita dignitosa alle donne e non si preoccupa di cosa possa loro capitare nella ricca Arabia Saudita.
Suttora, ancora, osserva che i fautori dell’accordo, che di fatto legalizza la schiavitù domestica, dicono che l’alternativa è ancora peggiore: centinaia di clandestini annegati nel mar Rosso in questi anni di divieto di immigrazione. Nessuno evidentemente si è posto il problema di trovare soluzioni all’interno del Paese per creare lavoro, innalzare i salari e, quindi, evitare fughe di massa. La scorciatoia di rendere legale ciò che di fatto non è, cioè la schiavitù, sembra la via più facile e quella che da meno preoccupazioni.
Le giovani donne etiopi, per lo più sedicenni, verranno selezionate da apposite agenzie, 340, e dovranno aver frequentato un corso di economia domestica. Dunque le sedicenni dovranno soddisfare requisiti minimi per poter essere ammesse e cioè saper stirare, pulire e lavare. C’è da chiedersi se i “cataloghi” delle giovani etiopi, che finiscono nelle mani degli uomini di Riad, dovranno soddisfare anche qualche altro requisito, cioè la bellezza. Non è mistero che ai sauditi le donne nere, belle e snelle, piacciono molto. Ma questo requisito non è menzionato nell’accordo. Insomma il passo da schiave domestiche a schiave del sesso è breve.
Poco importa, inoltre, che queste giovani donne siano costrette a lavorare negli harem sauditi anche per 20 ore al giorno, senza riposo, senza la possibilità di ribellarsi ai datori di lavoro, di denunciarne gli abusi. Però i governanti di Addis Abeba sono convinti che l’intesa è un buon accordo perché garantisce un buon stipendio, molto al di sopra della media nazionale. L’Etiopia - con un Pil che nel 2018 è cresciuto del 7,7% e le previsioni lo danno in crescita dell’8,2% nel 2019 – rimane uno dei paesi più poveri dell’Africa nonostante gli svariati miliardi di dollari che Pechino investe in Etiopia. Un paese che conta ancora molto sulle rimesse degli immigrati, molti dei quali, appunto, lavorano nella dirimpettaia Arabia Saudita.
Questo fenomeno non riguarda solo l’Etiopia. Anche la vicina Somalia ha studiato una legge che possa permettere alle giovani donne somale di emigrare legalmente in Arabia Saudita. Anche qui la giustificazione è evitare l’emigrazione clandestina. Le giovani somale che “desiderano” andare a lavorare in Arabia Saudita, dovranno dotarsi anche di un certificato medico che certifichi l’assenza di malattie veneree. Questo certificato, però, non è richiesto ai datori di lavoro.