Il diritto alla salute e alla sanità, in Costa d’Avorio, è più sulla carta che nella realtà dei fatti. Sulla carta e nelle norme del paese è garantito al nascituro e alla mamma l’assistenza al parto e le cure gratuite per il bimbo fino all’età di cinque anni. Ma tutto ciò resta un’illusione. Per chi non ha denaro, e tanto, non trova negli ospedali pubblici l’assistenza adeguata. Spesso non la trova affatto. Più dei numeri contano le storie che rivelano una realtà drammatica per le future madri. A Grand Bassam, antica capitale della Costa d’Avorio, con l’aiuto della Comunità Abele, ong torinese, ho raccolto la storia di Awa (nome di fantasia). In parte me l’ha raccontata lei, ma fatica a svelare un dramma. Gli educatori della Ong torinese hanno raccontato il resto.
Awa è una ragazza fragile, 16 anni, con una vita complicata fatta di stenti ed esperienze drammatiche. Molte, a Grand Bassam, sono le minorenni, che per arrivare a fine giornata - arrivare a fine mese non è un problema che si pongono, la quotidianità è l’orizzonte – praticano il “sesso di sopravvivenza”. Ebbene Awa è rimasta incinta per la seconda volta. La prima gravidanza, seguita a uno stupro, è terminata con un aborto. La pratica è vietata in Costa d’Avorio. E allora queste giovani donne ricorrono a cocktail di farmaci, quelle che hanno dei soldi vanno negli ospedali, anche pubblici, che lo praticano clandestinamente. Con tutte le conseguenze del caso. Awa, però, questa volta, ha deciso di dare alla luce il suo bambino.
“Viste le difficoltà economiche della famiglia – mi racconta Leone de Vita, responsabile della Comunità Abele per la Costa d’Avorio – la nostra equipe educativa ha deciso di prenderla in carico e accompagnarla all’ospedale di Grand Bassam. Dopo due ecografie è stato scoperto che il liquido amniotico era praticamente finito e che il bambino era mal posizionato. La diagnosi: fare un cesareo, e subito, e mettere il bambino in una incubatrice, visto che sarebbe nato prematuro. L’ospedale di Grand Bassam è in fase di riabilitazione e non può fare l’intervento. Allora decidiamo di chiamare un’ambulanza, pagandola, per trasportare la ragazza all’ospedale Chu di Cocody, ma non ci sono posti. In questo ospedale ci consigliano di andare all’ospedale militare, ma solo per entrare ci chiedono una cauzione di 250mila franchi cfa (circa 400 euro). Non abbiamo i mezzi. Ritorniamo a Grand Bassam: un educatore si reca alla clinica privata Siloé, un altro a Bonoua al Centro don Orione. Alla clinica Siloé l’operazione costa 450mila franchi cfa, al centro don Orione non sono equipaggiati per questo tipo di interventi. Questi ultimi ci suggeriscono di andare all’ospedale generale di Adiaké”. I volonterosi provano a chiamare, ma non riescono ad avere informazioni precise e affidabili. Allora di nuovo in ambulanza con Awa. Chilometri su chilometri che non giovano né alla madre né al nascituro.
“Ad Adiaké possono fare l’operazione – continua De Vita – ma non hanno un’incubatrice per il bimbo. Si parte per l’ospedale di Ayamé e poi per il Centro ospedaliero regionale di Aboisso. In entrambi i casi i blocchi operatori non sono funzionanti. Si ritorna a Grand Bassam. Chiamiamo il Chu di Port Bouet, ma manca l’incubatrice. Quando cerchiamo di entrare in contatto con l’Ospedale di Youpougon, la nostra ricerca finisce: il bambino è morto”.
Nove ospedali e oltre 300 chilometri percorsi in ambulanza per cercare di far nascere un bimbo, ma a causa della mancanza di incubatrici, di malfunzionamenti e per i costi elevati il bambino di Awa non ha potuto vedere la luce. A chi dare la colpa? Non serve chiederselo. Piuttosto una considerazione: il Pil della Costa d’Avorio cresce dell’8,5% all’anno, il suo indice di sviluppo umano è del +0,003%. Il che significa che quell’8,5% non va certo a beneficio di Awa. Quando si leggono i dati di crescita economica dei paesi africani si dovrebbe, sempre, paragonarli alla crescita dell’indice di sviluppo umano che, come per la Costa d’Avorio, sono lontani anni luce. Se Awa decidesse di intraprendere il “viaggio della speranza” verso l’Europa, da noi sarebbe considerata una migrante economica da respingere. Per me è solo una giovane donna a cui è stato negato il diritto di vivere e di dare la vita.