Ventitrè anni fa si consumava uno degli avvenimenti più sanguinosi del Novecento: il genocidio ruandese. Era il 6 aprile del 1994 quando l’aereo su cui viaggiava l’allora presidente, l’hutu Juvenal Habyarimana, viene abbattuto in fase di atterraggio all’aeroporto di Kigali da un “missile terra-aria ignoto”. Un fatto che ha scatenato la furia genocidaria degli hutu nei confronti dei tutsi. Un milione di morti in pochissimi giorni, 100 per la precisione, più di due milioni di profughi fuggiti nel vicino Congo, dove in 50mila hanno trovato la morte per un’epidemia di colera – ho ancora negli occhi le immagini delle cataste di cadaveri lungo le strade di Goma - e in Tanzania.
Una tragedia annunciata
Numeri spaventosi: 8mila vittime al giorno, 333 ogni ora, 5 ogni minuto per 100 giorni. Tutto è avvenuto sotto l’occhio disattento della comunità internazionale, delle Nazioni Unite, delle potenze ex coloniali, della Francia, forse tra le più colpevoli di ciò che è accaduto in quei giorni. Un evento ampiamente previsto, eppure nessuno in quei mesi, nemmeno al Palazzo di Vetro, osava pronunciare la parola “genocidio”. Una parola che avrebbe permesso ai caschi blu di intervenire in maniera decisa per difendere la popolazione. E, invece, no. Il capo dei caschi blu a Kigali, Romeo Dallaire ha chiesto rinforzi, ma il Consiglio di Sicurezza ha risposto riducendo il contingente a sua disposizione da 2500 a 270 caschi blu. Uomini che, impotenti, hanno assistito al massacro dei tutsi e degli hutu moderati. Un evento, tuttavia, che era ampiamente prevedibile.
Legare le mani ai caschi blu
In un fax Dallaire, inviato l’11 gennaio del 1994 ai suoi capi all’Onu, evidenziava con chiarezza che in Ruanda si stava preparando un massacro. Non solo. Il capo dei caschi blu è stato messo nelle condizioni di non intervenire. Doveva solo guardare. In molti hanno liquidato quegli avvenimenti come un affare interno al paese e creduto, colpevolmente, che il massacro sia stato eseguito solo a colpi di machete, cioè con gli strumenti utilizzati dai “poveri agricoltori” hutu per il lavoro quotidiano. Affari loro. Ma non è così. Nei tre anni che hanno preceduto il genocidio, il Ruanda, sotto gli occhi colpevoli della Banca mondiale, importava armi in grande quantità, diventando il primo importatore in tutta l’Africa. Anche i famigerati machete, utilizzati per sgozzare e sventrare chiunque non fosse hutu, sono stati importati dalla Cina e distribuiti in grandi quantità.
Il perdono di Papa Francesco, la responsabilità della Chiesa
C’è, dunque, una responsabilità internazionale che pesa ancora oggi. Non tutti, infatti, hanno chiesto “perdono”. Non lo ha fatto la Francia, che con l’operazione Turchese, di fatto, diede protezione ai genocidari. Lo ha fatto, invece, Papa Francesco, chiedendo perdono per i peccati della Chiesa e dei suoi membri, tra i quali molti sacerdoti, religiosi e religiose che hanno partecipato attivamente ai massacri. E, questa, è una delle tante ragioni di disaffezione alla chiesa cattolica. I musulmani, in Ruanda, fino ad allora, sono sempre stati una residua minoranza. Oggi rappresentano una considerevole realtà. All’epoca, infatti, diedero protezione ai tutsi. Oggi, in più città e villaggi, si vede ciò che fino al ’94 non si vedeva: minareti un po’ ovunque. Non solo non si chiede perdono e non si fa chiarezza sulle responsabilità internazionali, ma non si è imparato nulla dai quei tragici giorni, e l’odio etnico non è stato estirpato dalla regione dei Grandi Laghi.
Il genocidio (disinnescato) del Burundi
In Burundi, stato gemello del Ruanda per composizione etnica, il progetto genocidario, pronto per essere eseguito, è stato concepito dalla mente malata di Willy Nyamitwe, consigliere politico del presidente Pierre Nkurunziza e, guarda caso, sono entrambi hutu. Un progetto che, per ora, è stato disinnescato da chi ha avuto il coraggio di parlare, di raccontare cosa sta accadendo nel paese. E il regime risponde con una feroce repressione, condannata, questa volta sì, dalla comunità internazionale che vorrebbe intervenire, ma il presidente nega il “permesso”, perché, dice, la presenza sul territorio burundese di militari stranieri verrebbe considerata, non solo un’ingerenza nei affari interni di un Paese sovrano, ma un atto ostile.
Un regime con un Pil a doppia cifra
Il Rwanda oggi è ancora governato da quel Paul Kagame, che nel luglio del ‘94 entrò a Kigali da trionfatore e liberatore. Un paese che cresce velocemente, il suo Pil sfiora la doppia cifra, la diversificazione economica è al primo posto nell’agenda del governo. Con il progetto “Visione 2020” per la lotta alla povertà, il Ruanda ha iniziato un programma di liberalizzazioni e privatizzazioni che hanno l’obiettivo di trasformare l’economia, che dipende al 90% dall’agricoltura, in un sistema capace di saper cogliere nuove opportunità e portare occupazione.
Rimane, tuttavia, un paese dove, anche se abolite, le differenze etniche permangono: gli hutu rimangono la classe più povera, i tutsi quella più abbiente. I diritti umani non sono garantiti, le libertà di espressione, anche dei giornalisti, sono un miraggio. La critica al regime è proibita e Kagame continua ad usare il pugno di ferro contro gli oppositori. L’odio etnico è solo sopito, cova sotto una coltre di cenere, pronto a riesplodere. E il mondo dimentica, ma la memoria dei massacrialeggia ancora tra le mille colline del Ruanda.