Il Kenya è piombato nell’incertezza. Il voto dell’8 agosto scorso per le presidenziali è stato annullato dalla Corte suprema. Ora, l’auspicio è che prevalga il buon senso tra le parti. Il presidente della Corte suprema, David Maraga, nell’annunciare la decisione di “annullare” il voto, ha detto che il processo elettorale “non si è svolto in linea con la Costituzione” e ha disposto che il voto si ripeta entro 60 giorni. Ed è proprio questo che preoccupa.
Cosa accadrà in questi 60 giorni?
Intanto la decisione, in un certo qual modo, è storica: non è mai successo, in tutto il continente africano, che un voto fosse annullato. E se poi guardiamo con gli occhi degli occidentali verrebbe da pensare che in Kenya la democrazia è compiuta. Ma ciò non tiene conto delle rivalità storiche tra il presidente uscente, e vincitore secondo la Commissione elettorale con il 54,27% dei voti, Uhuru Kenyatta, e il suo avversario di sempre, capo dell’opposizione, Raila Odinga, 72 anni, uscito sconfitto in tre precedenti tornate presidenziali nel 1997, 2007 e 2013. Anche nel 2013 Odinga aveva fatto ricorso ma, all’epoca, non è stato accolto.
Nel 2007 oltre mille morti durante proteste
All’indomani del voto dell’8 agosto, con l’annuncio della vittoria di Kenyatta, in varie parti del paese, in particolare nelle baraccopoli di Nairobi, la capitale, sono scoppiati incidenti che hanno provocato la morte di almeno 21 persone. Niente a che vedere con quello che è successo nel 2007 quando negli scontri post-elettorali, durati più di un anno, sono morte più di mille persone. Nuvoloni neri, dunque, si addensano sul Kenya.
All’esterno del palazzo della Corte, protetto da imponenti misure di sicurezza, subito dopo l’annuncio dell’annullamento del voto, ci sono state manifestazioni di giubilo dei sostenitori di Odinga. L’augurio è che ci si limiti a questo tipo di manifestazioni e la campagna elettorale, in questi 60 giorni, resti nei binari democratici e dello scontro civile. E qui la comunità internazionale dovrà vigilare con molta attenzione. Occorre vigilare perché il clima socio-politico del Kenya è piuttosto fragile.
L'allarme dei vescovi
Già prima del voto, durante la campagna elettorale, i vescovi del Kenya avevano puntato il dito proprio sull’incapacità “dimostrata dalla maggior parte dei partiti politici – scrivevano i vescovi in una nota – di condurre elezioni primarie pulite e trasparenti, dimostra la fragilità del sistema politico alla vigilia delle elezioni. Abbiamo partiti politici che non sono in grado di gestire in modo organizzato e pacifico la democrazia interna”.
I vescovi lanciarono l’allarme, forse ancora con la mente rivolta alle violenze e ai morti che hanno caratterizzato il post elezioni nel 2007. In quell’occasione furono oltre mille i morti e centinaia di migliaia le persone costrette a lasciare le proprie case. “Una situazione – affondano i vescovi – che lascia presagire che le elezioni di agosto potrebbero essere turbate da disordini e violenze. Timori condivisi dagli investitori internazionali e dai turisti stranieri che stanno disertando il Kenya”. Timori che, poi, sono diventati realtà.
In corso una trasformazione sociale
Nel Paese è in corso una profondissima trasformazione sociale, con ricche e potenti élite urbane che colpiscono l’integrità del tessuto delle comunità locali, che vengono via via espropriate delle proprie tradizioni e pratiche pastorizie. Comunità che vengono trasformate in proletariato rurale finite nelle mani di voraci e ricchissimi politici e “tycoons” urbani che comprano le loro terre e le loro mandrie come investimento e, spesso, come mezzo di riciclaggio del denaro frutto della corruzione.
Con i pastori sempre meno pastori e le comunità sempre meno comunità, il nuovo “proletariato rurale” – sempre più numeroso e povero, fatto sempre più di giovani – può essere, ed è, facilmente arruolabile e ben armato, per costruire vere e proprie milizie da usare, anche, durante le lezioni. Siamo di fronte a un sistema mafioso, governato dai politici locali, che assoldato milizie di giovani, tra i poveri sbandati, per poter acquisire terre e riciclare il loro denaro.
Il tribalismo e la corruzione minano la pace e la stabilità della nazione keniana, e i vescovi, spiegano che la “corruzione ruba risorse pubbliche necessarie per sollevare dall’indigenza milioni di keniani che languono nella povertà assoluta, mentre pochissime persone, che hanno accumulato ricchezze immense, godono della loro vita come se i poveri non esistessero. Tra questi ci sono molti giovani disoccupati che rischiano di essere sedotti dalle sirene della radicalizzazione e della violenza”.