AGI - Niente ti può preparare a vincere un titolo dello Slam. Soprattutto se vieni da un Paese come la Polonia dove il tennis, pur con qualche acuto, non ha mai avuto una solida tradizione. Nella vita di Iga Swiatek, numero uno del tennis mondiale, il successo è arrivato come una valanga. Ha travolto e stravolto la sua vita e quella dei suoi familiari.
A 21 anni, la tennista di Varsavia, ha già vinto non uno ma ben tre titoli dello Slam: il Roland Garros, conquistato due volte, e gli Us Open. Ma come tanti altri atleti ha dovuto fare i conti con la pressione psicologica e la paura di fallire.
È possibile rimane "introversi", come si definisce Swiatek, e abbracciare tutte le attenzioni, mediatiche e sportive, che il successo porta con sé? Prima di affrontare gli Australian Open, in partenza la prossima settimana, la tennista di Varsavia ha deciso che era giusto fermarsi, riflettere e mettere nero su bianco, grazie al sito 'The Players Tribune', quel vortice di emozioni che costruiscono oggi la sua esistenza. Forse l'unico modo per poter andare avanti senza sentirsi schiacciati.
"Quando sono tornata in Polonia" dopo la prima vittoria a Parigi "sono stata invitata a una cerimonia di premiazione all'interno del palazzo presidenziale dove ho ricevuto una medaglia". Ma insieme agli applausi sono comparsi anche i paparazzi. "Vivo fuori Varsavia. Ci aspettavano davanti a casa con le telecamere. Mio padre guidava veloce, svoltava in strade secondarie, controllava lo specchietto". Come in un film di James Bond. "Sembra spaventoso ma ci siamo divertiti. Era come stare in un set di un film americano". E il sorriso di suo padre in quella corsa in auto è il ricordo più chiaro, "più della vittoria" all'interno del Philippe Chatrier. Più della medaglia o della cerimonia. Più dei titoli di giornale.
La vita di Iga da allora è racchiusa in una sola parola: adrenalina. E in un aggettivo che la descrive: pura. Adrenalina, pura. "Vincere il mio primo Slam ha cambiato tutto. Non c'era nulla che potesse prepararmi. In Polonia non c'è più nessun posto in cui posso essere sicura di andare senza essere riconosciuta". Swiatek dice di essere grata del successo, certo, ma da allora è molto più "disorientata, stranita".
Tutto è amplicato dal suo carattere. "Si potrebbe pensare che da piccola stessi sveglia tutta la notte a sognare di diventare un grande giocatore di tennis. Ma non era così. Di notte sognavo di riuscire a essere più naturale nei rapporti sociali". Swiatek ha spiegato che fino ai 18 anni c'erano dei momenti in cui era difficile per lei guardare le persone negli occhi e quanto fosse complicato instaurare legami. Poche parole, a volte nessuna. (
La stessa cosa è avvenuta con il tennis. "Mi piaceva giocare da bambina ma non sognavo di diventare una professionista. Era il desiderio di mio padre. Voleva che le figlie facessero sport e magari un giorno diventassero atlete". La 21enne ricorda come preferisse rimanere con i compagni a giocare, soprattutto a calcio, dopo la scuola, più che allenarsi a tennis. "Mio padre era sempre presente, credeva in me. Mi ha insegnato a essere una professionista, ad avere disciplina e regolarità". Frasi che sembrano quelle di Open, del papà di Agassi. Stesse ambizioni ma meno ingombranti e ossessive.
"Non era un super duro ma era severo per quanto riguarda gli allenamenti e il seguire delle routine sane. Era quella voce nella mia testa che mi guidava sempre sulla strada giusta". Del resto Tomasz Maciej Swiatek aveva conosciuto sulla propria pelle la fatica e i sacrifici. Nel 1988 aveva raggiunto l'apice partecipando alle Olimpiadi come canottiere nel quadruplo maschile polacco.
A 15 anni nella testa di Iga Swiatek cambia tutto. Scatta il clic. Il tennis diventa vita. "Era il mio primo Junior Grand Slam, al Roland Garros. La qualità che offrivano agli atleti era qualcosa che non avevo mai sperimentato prima. Dove mi allenavo in Polonia da adolescente, non riscaldavano nemmeno la sede in inverno, prima della scuola. C'erano giorni con solo tre gradi all'interno". A Parigi, invece, campi moderni, atmosfera perfetta.
"Quando ho iniziato a giocare, non so, era come se la palla volasse esattamente dove volevo. Mi ha colpito molto perché non mi capita spesso di vivere momenti del genere. Poi vedere i grandi campioni come Nadal e Serena. Ho lasciato Parigi pensando che volevo solo lavorare di più e migliorare". Ma passare dal "crescere" al diventare la più forte tennista del mondo è tutto un altro paio di maniche. "Ricordo che il mio allenatore (Tomasz Wiktorowski, ndr) mi disse che nel 2021 l'obiettivo era di diventare numero 1 entro un anno. Io risposi: 'Sì, ok, certo'. Ma pensavo che il suo fosse un discorso da film, alla Ted Lasso." (
In Polonia non è semplice crescere. È una questione di investimenti, di strutture, di risorse che spesso non ci sono. "A volte crescendo non avevo un posto dove giocare. Per mio padre non è stato semplice investire soldi in allenatore e campi". Sua figlia però ricambia tutto sul campo. Vince e scala la classifica. Diventa sempre più forte. Entra nella top 5. Ma la sensazione di paura, di stranezza, permane. E scoppia, di nuovo, al momento del ritiro di Ashleigh Barty, a soli 25 anni. "Ricordo di aver chiamato mio padre quando ho saputo che Ash si sarebbe ritirata. Era marzo. Avevo preso un appartamento a Miami per gli Open quando la mia psicologa, Daria, entrò e disse che Ash aveva annunciato il suo ritiro. All'inizio non capivo. Mi sono chiesta: 'Cosa? Com'è possibile?". E poi ho iniziato a piangere". Swiatek in quel momento era numero due delle classifiche. Appena dietro Barty, la più forte di tutte.
"Ho chiamato mio padre, ed era notte fonda in Polonia. Non lo chiamo mai, ci scriviamo sempre su Messenger o WhatsApp, quindi ha pensato che stesse succedendo qualcosa di brutto. Ma credo che fosse così assonnato da non riuscire a capire bene. Ma io stavo singhiozzando. Non riuscivo a smettere di piangere. Onestamente, non aveva molto a che fare con il potenziale avanzamento in classifica. Può sembrare strano, ma ero confusa e scioccata dal fatto che Ash avesse 25 anni e si stesse ritirando".
Non ci si ritira prima dei 30 anni, di solito, se il fisico regge. "Non riuscivo a capacitarmi. Non sapevo se fosse infelice o altro. Ma poi ho guardato il suo video su Instagram e ho capito. E ora lo capisco ancora di più". Stress, aspettative, paura di non farcela. Un po' quello che stava succedendo anche a Naomi Osaka, altra campionessa che ha vissuto un lungo periodo di crisi interiore. La testa conta più del fisico. La mente più del braccio. "Dopo aver vinto di nuovo il Roland Garros l'anno scorso" spiega Swiatek "speravo di poter giocare senza pressione. Ma a Toronto e a Cincinnati ho capito quanto sia difficile essere numero uno del mondo quando tutti i giocatori vogliono batterti. Giocano il loro miglior tennis contro di te". E giocare sempre al top è la cosa più difficile per un atleta. "A volte devo costringermi a sentirmi orgogliosa di me stessa. Devo costringermi a farlo".
La più grande difficoltà per Swiatek si è verificata durante le Olimpiadi di Tokyo. "Ho pianto in campo dopo aver perso in un set e ho sentito che la gente mi stava giudicando un po'. Poi, a Guadalajara, ero esausta mentalmente e fisicamente e non sapevo cosa fare. Mi sentivo impotente in campo e ho pianto di nuovo".
Essere un giocatore di tennis è difficile, essere un campione lo è ancora di più. Ed è importante, secondo Swiatek, che ci siano atlete, come la Barty, che scelgono strade diverse. "Mentre sei in viaggio e cerchi di raggiungere l'eccellenza, a volte puoi dire: 'Ok, basta così'. Sei tu che hai il controllo, per tutto il viaggio. Nessun altro sta guidando".
La soluzione, secondo Iga Swiatek, numero del tennis mondiale è solo una: "Fregarsene. Se c'è un segreto del mio successo nell'ultimo anno, è quello di essermi concessa la libertà di fregarmene di quello che pensa la gente". Tutto allora cambia prospettiva. L'essere riconosciuti, ovunque, nel proprio Paese, può essere un'arma per fare del bene. "Voglio continuare a usare la mia voce per parlare dei problemi in Polonia, come quelli relativi alla salute mentale". Forse l'unico modo per convivere con le aspettative richieste dai media, dai fan, dalla famiglia. E forse dal tennis stesso.