AGI - Dalla fine di una storia molto si può capire di cosa è successo prima. Del valore che ha avuto una carriera e dell’intensità con cui è stata costruita e vissuta. Guardando il volto velato di una sempiterna tristezza di Bjorn Borg agli allenamenti londinesi per la Laver Cup in scena da domani nella O2 Arena con l’ultimo iconico match di Roger Federer (di doppio, al fianco di Nadal) si comprende perché l’orso svedese si fece da parte a soli 27 anni.
Era il 1984, Bjorn aveva perso l’ultimo match ufficiale l’anno prima contro Henri Leconte. Ma da mesi il suo volto e la sua concentrazione in campo tradivano quella nausea da tennis che poi sarebbe esplosa. E che si sarebbe mostrata non del tutto metabolizzata nemmeno sei anni dopo quando lo svedese tornò in campo con il santone in tribuna. Nulla a che vedere con l’addio sentimental-sorridente di Federer a 41 anni: il suo è stato comunque un atto di profondo amore nei confronti del suo sport, quello di Bjorn un distacco doloroso.
C’è chi l’ha vissuto serenamente questo distacco. E chi meno. Big Bill Tilden, probabilmente il più forte giocatore di tutti i tempi, in sostanza non smise mai. Segnato dai debiti e dai processi per omosessualità nell’America intollerante degli anni Trenta e del dopoguerra pur essendo in età avanzata (a cinquant’anni batteva ancora tennisti come Budge o Perry) dava lezioni private e si proponeva come coach.
Rod Laver, tanto per restare nell’Olimpo dei grandissimi ma in un mondo che non aveva più nulla di quello di Tilden, assottigliò i suoi impegni fino al 1976 quando giocò solo in alcune esibizioni, per poi ritirarsi ufficialmente nel ’79, a 41 anni, guarda caso l’età dell’addio di Federer. Il suo trapasso da grande vecchio fu leggero e quasi naturale.
Ma anche il filone Borg, composto da quelli che in età giovanile si sono accorti che il tennis aveva otturato i loro condotti di percezione della realtà, è ben nutrito. Ne abbiamo avuto prova quest’anno con il ritiro della più forte (e di gran lunga) che c’era in circolazione, Ashley Barty, a 26 anni. Una bella conferenza stampa volante (anche Sharapova si è fatta da parte così) e alè: si è fuori dai giochi. Voglia di fare altro nella vita, fisico che si lamenta, testa che non regge più una competitività alla massima potenza: chi prova curiosità per la vita magari decide presto di farsi da parte.
Martina Hingis desiderosa di provare a vivere una vita fuori dal campo (e ci sarebbe riuscita solo molto tempo e qualche rientro dopo) si ritirò a 22 ani dopo essere stata per 209 settimane la numero 1 al mondo. Jennifer Capriati restò nel circus di più, si ritirò a 28 anni dopo essere entrata fra le prime 10 quando di anni ne aveva 14. E pure il suo ingresso nella vita “vera”, difficoltoso assai, fu la prova del perché molti praticanti ad alto livello di questo sport fanno slittare all’infinito il momento dell’addio: perché poi bisogna fare i conti con un buco spesso nero di vita che non si sa come affrontare, come insegnano le recenti esternazioni di Francesco Totti.
John McEnroe ha deciso di uscire di scena a più riprese senza riuscirci davvero. Tornato in scena dopo il ritiro del ’92 a 33 anni, annunciò il suo secondo addio quando di anni ne aveva 47, dopo essersi ripresentato prima nel ’94 a Rotterdam e cinque anni dopo a Wimbledon, per il misto con la stratosferica Graf (arrivarono in semifinale).
Ha vestito i panni di colui che può essere capitano di Davis, talent per esibizioni di lusso, commentatore televisivo, aspirante coach di Sinner e porta sempre sul suo volto rugoso l’invisibile scritta “io sono un giocatore”. Ma anche Martina Navratilova l’ha tirata per le lunghe: quando mancava un mese ai suoi 50 anni, nel 2006, vinse il misto allo US Open.
Difficilmente però l’addio di un tennista, quello sofferente di Agassi a 36 anni nel 2006 dopo la sconfitta contro il qualificato tedesco Benjamin Becker (solo omonimo di Boris) quello doloroso e falsamente liberatorio del vero Boris Becker nel 1999 sul Centrale di quello stesso Wimbledon i cui colori campeggiavano sulla cravatta indossata mentre stava entrando nel penitenziario londinese di Wandswort nell’aprile di quest’anno, è privo di emozioni.
A ben vedere però quasi nessuna o nessuno ha vissuto il suo addio (manco quello a metà di cui è stata protagonista Serena Williams poche settimane fa) come un gesto di apertura più che di chiusura. Anzi forse in un caso è successo: quando appena dopo aver vinto lo Us Open nel 2015 Flavia Pennetta ha preso il microfono e semplicemente ha detto “chiudo qui”. Perché adesso inizia altro per me. Ogni cosa ha il suo tempo: lei lo aveva capito, Roger lo programmava da anni, quel tempo a venire. Ma per chi gioca a tennis l’incertezza del dopo è ancora un tabù. Spesso difficile da affrontare.