AGI - C’è qualcosa che accomuna Pete Sampras a Carlos Alcaraz. E non è solo il fatto che Pete vinse lo Us Open battendo Andre Agassi quando aveva 19 anni (correva l’anno 1990) e pochi giorni, poco meno di Carlos. L’elemento comune lo si intuisce guadando i volti dei due. Pete, come oggi Carlos, non era un volto altamente spendibile per operazioni commerciali e di marketing. Quel labbrone, quello sguardo a volte così concentrato nel gioco da apparire fuori dal mondo: Pete era il contraltare perfetto del suo avversario che, invece, per il ruolo di testimonial perfetto di se stesso e di numerosi prodotti sul mercato pareva esserci nato. Agassi, per l’appunto.
Alcaraz non ha (ancora) un volto già pronto per l’advertising. E’ un ragazzone meravigliosamente sparapalle, con l’acne più o meno palese e lo sguardo di chi ancora non crede del tutto al fatto di essere arrivato tanto in alto. Fuori dal campo cammina un po’ come John Wayne quando scende da cavallo.
Per contro il suo avversario designato, Jannik Sinner, ha già in portafoglio un gran numero di marchi e altri sono in procinto di aggiungersi. Con i suoi riccioli rossi, il sorriso solare e una capacità comunicativa degna di miglior causa Jannik su questo terreno è più avanti: sul campo è invece mezzo passo più indietro.
E la rivalità con il neo n.1 al mondo è destinata a essere quella-simbolo della nuova epoca del tennis che si è aperta con il trionfo newyorchese di Alcaraz. Detto che non ci vorrà molto perché anche il murciano si arricchisca assai più di quanto gli è riuscito fino a ieri (2.600.000 dollari di prize money per il successo a Flushing Meadows che portano a oltre nove milioni il suo tesoretto) va preso atto che il tennis maschile è entrato in una nuova era. La cui griffe è del tutto nuova: quello che anni fa si definiva il playstation-tennis si è evoluto, come un Pokemon.
E ha dato vita ad una nuova versione di sé dove gli interpreti del gioco usano tutte le armi a loro disposizione (servizio, tagli, attacchi da fondo, drop shot, gioco al volo, serve&volley) ad una velocità supersonica, per di più. Addio al gioco “solo” di tocchi al volo che negli ’20 e ’30 era considerato (pensate un po’) un artificio per eludere la fatica dello scambio: addio per sempre alle pallettate da fondo eredità della tradizione terraiola e pure al bombardamento monocorde in stile Djokovic vs Murray.
Il nuovo tennista migliora in tutto, è spettacolare e se non è lo diventa, ha possibilità fisiche superiori, sensibilità sulla palla, accortezza tattica. Basti pensare ai miglioramenti a rete che due come Sinner e Ruud (non venuti al mondo per toccare la palla con la delicatezza della piuma che scende dal cielo di Forrest Gump) stanno compiendo per raggiungere l’Olimpo.
Il nuovo canone tennistico ha qualcosa del Padel nel senso che rifugge la noia e accetta la sfida della contemporaneità: produrre nel corso di un match, un gran numero di punti-highlights con cui infarcire i profili social è esigenza fondamentale, se non primaria. Ma questo canone, a differenza del Padel (amatoriale, almeno) richiede, per essere ben interpretato, una conoscenza carnale di tutta la tradizione tennistica, femminile e maschile.
I nuovi “mostri” del tennis devono essere capaci di esprimere potenza e delicatezza. E ci stanno riuscendo. I nomi? I due duellanti già citati, certamente Ruud e Holger Rune (se si calmerà), il non più verdissimo Kyrgios, il nostro Musetti, Auger Aliassime se troverà fiducia.
Attenzione: il gruppo dei Medvedev, Zverev, Berrettini, Tsitsipas, con tutto il rispetto per quanto sono riusciti a fare fino ad oggi, rischiano di rivelarsi breve i nuovi Berdych, Tsonga, Dimitrov: tennisti eccelsi che non sono mai riusciti a dominare e a penetrare l’immaginazione degli appassionati. Nel loro caso perché la dittatura dei Fab Four era inscalfibile; nel caso dei giorni nostri è perché “i nuovi” hanno dalla loro anche la spregiudicatezza e la fantasia. Scusate se è poco.