AGI - “Merci monsieur tennis, je t’aime”. Ecco: si potrebbe chiudere qui, riportando le parole con cui Jo Wilfried Tsonga ha concluso in lacrime il saluto che sul campo centrale del Roland Garros ha segnato la fine della sua carriera, ogni commento sull’ (ex) giocatore francese e sul suo addio.
Celebrato, oltre che da tutta la famiglia, da tutti i coach e i preparatori atletici della sua vita e da tutti i tennisti suoi connazionali e della sua generazione convocati in campo per la cerimonia, anche da una sorta di “auto-battesimo”: una macchia di terra rossa che Tsonga si è spalmato in mezzo alla fronte, dopo aver stretto la mano al suo ultimo avversario Casper Ruud.
Tsonga, 37 anni, soprannominato a inizio carriera Cassius per una certa somiglianza con Alì, ha amato lo sport e, come si confà ai grandi amori, in suo nome ha tollerato e accettato almeno due limiti di grande importanza: uno di natura fisica e uno legato alla contingenza temporale.
Tutta la sua carriera è stata costellata da infortuni quasi sempre fortemente invalidanti; e non è un caso che nel suo ultimo match della vita contro Ruud al Roland Garros, in quella che tutti prevedevano essere una sorta di passerella è invece si era rivelato una partita vera, sia stato proprio l’ennesimo guaio fisico (la lesione del tendine della spalla destra) a fermarlo poco prima del tie break del quarto set; tra l’altro arrivato mentre stava giocando in modo strepitoso e sopportato stoicamente, perché ritirarsi nell’ultimo match della vita non sarebbe stata la conclusione che meritava.
La contingenza temporale non ha giocato a favore della carriera di Tsonga, che adesso si dedicherà alla sua accadema tennistica: come molti della sua generazione, ma forse più di tutti, è andato a sbattere contro i Fab Four (Federer-Nadal-Djokovic-Murray) e a loro ha dovuto inchinarsi. Senza un predominio così assoluto di un poker di giocatori durato due decenni Tsonga avrebbe vinto di certo molto di più.
Simbolico, in questo senso resta il quarto di finale di Wimbledon 2011 quando Roger, per imporsi, dovette rimontare uno svantaggio di due set a zero. Così come la perla della sua carriera resta il titolo conquistato a Toronto nel 2014 quando superò in sequenza Djokovic, Murray e Federer in finale, non prima di essersi sbarazzato di Dimitrov in semi.
Certo il suo palmares resta comunque di quelli che devono essere salutati con una standing ovation: una finale Slam a Melbourne (persa contro Djokovic nel 2008) e quattro semifinali in singolare; una Davis, un argento olimpico a Londra in doppio, 18 titoli Atp complessivi, cinque del mondo il suo best ranking.
Ma ciò che l’atto finale della sua carriera ha celebrato sullo Chatrier, è che Tsonga è riuscito a essere parte di una nazione, fino a diventarne simbolo senza avere mai centrato un titolo major. E avendo pure fallito, nel 2017, l’occasione di essere lui (sul 2-1 per i transalpini contro i cugini belgi) a consegnare l’insalatiera alla Francia: fu sconfitto invece in tre set da Goffin.
Primo del gruppo degli inseguitori si è rivelato comunque un leader. Quando fu inserito nella Hall of Fame di Newport Pete Sampras, nel suo discorso di ringraziamento, disse: “In fondo io sono stato solo un tennista”. Anche Tsonga lo è stato e ha vinto molto meno di Pete. Ma quando si dà corpo al sogno che si aveva da bambini non può che sorridere. Quello stesso sorriso che ha segnato tutta la carriera del francese, perfino impreziosito dalle lacrime nella giornata conclusiva della sua carriera di tennista.