AGI - Houston, abbiamo un problema. Anche più di uno in realtà e non solo in senso sportivo; ma per quanto riguarda il tennis il problema c’è eccome. Ed è semplice: il tennis è a pezzi, come Harry nel film di Woody Allen. In senso fisico ma non solo. E il personaggio simbolo di questa fase di rottura prolungata è Matteo Berrettini. Il quale ha appena annunciato che non prenderà parte a Montecarlo, Madrid e Roma; e che, non giocando nemmeno a Belgrado e Monaco, perderà complessivamente 1140 punti. Fatto che lo farà arretrare nella classifica Atp, presumibilmente non di poco. Il tutto nell’anno in cui Matteo è diventato un simbolo globale non solo del suo main sponsor ma anche del tennis nel suo complesso, come dimostra l’attenzione con cui sono seguite le sue vicende sentimentali.
Il periodo è quello di un passaggio da un’era ad un’altra: Federer è fermo ai box e forse ricomparirà in campo nella sua Laver Cup a settembre; Nadal si è spaccato due costole da solo (frattura da stress) e si rivedrà fra qualche settimana chissà quando. Medvedev si è operato di ernia e chissà se lo rivedremo a Parigi.
A inizio aprile, alla viglia della fetta più “faticosa” della stagione (quella sulla terra) il tennis maschile scricchiola. Poi ci sono le crisi di nervi di quelli che il fisico magari ce l’hanno a posto ma la testa molto meno: Zverev che prende a racchettate il seggiolone dell’arbitro durante un doppio ad Acapulco, Kyrgios che contro Sinner a Miami sbraita come un ubriacone da bar contro l’arbitro e poi demolisce a racchettate il suo borsone (prima della racchetta); Brooksby che lancia la sua di racchetta dopo averla frantumata e colpisce un raccattapalle. L’Atp ha annunciato un giro di vite regolamentare contro certi comportamenti ma il malessere resta ed è diffuso.
Poi c’è anche il malessere femminile: chi si ritira in mezzo alle partite senza motivo apparente (Azarenka), chi crolla per un fugace insulto di uno spettatore ubriaco (Osaka), chi è furibondo perché nota che i colleghi russi della guerra se ne fregano e pensano solo ai problemi che incontrano nel gestire i loro guadagni da remoto (l’ucraina Kostyuk). E c’è che si ritira a 26 anni da n. 1 del mondo (la Barty) semplicemente perché non ne può più.
E non è che tra i giovani tiri un’aria migliore: andate vedervi lo schiaffone con cui il quindicenne francese Kuame si è congratulato a fine match con il giocatore che l’aveva battuto, il ghanese Nil, provocando una gazzarra degna di un comica dei poliziotti di Kingston; peccato che in questo caso non ci fosse nulla ridere.
Certo tutto scivola in secondo piano quando si assiste alla consacrazione del nuovo re (Alcaraz) e quando alle spalle degli azzurri più noti si affacciano due nomi nuovi e di valore quali quelli di Flavio Cobolli e Luca Nardi che lasciano invece un’ottimistica sensazione sul futuro: nel tennis maschile non ci sarà un altro buco (ne abbiamo vissuti parecchio in passato) dopo una generazione vincente.
Ma è difficile non cogliere come il più individualista degli sport individuali in qualche modo recepisca il mood che caratterizza il resto del mondo. C’è come un flusso sotterraneo di tensione che come la melma rabbiosa nella New York di Ghostbusters, ogni tanto emerge pure sui campo da tennis e provoca infortuni, sfuriate ritiri, abbandoni. Speriamo che il volto sorridente e l’atteggiamento educato di Carlos Alcaraz siano un antidoto sufficiente a questa tensione. Speriamo.