S emplice, umile, calma, tranquilla, quasi dimessa, seria, la ragazza della porta accanto: così è Ashleigh Barty, la regina del Roland Garros, l’ultima campionessa Slam di questo pazzo pazzo tennis donne, che punta autorevolmente al bis consecutivo nei grandi tornei, sull’erba di Wimbledon. Prendendo il testimone da Naomi Osaka, sia come bi-campionessa Majors che come regina della classifica mondiale.
La sua classe è la classe dei campioni, che si riconoscono in lei. “Noi del Queensland siamo schivi, con tanta volontà e carattere, vogliamo imparare e cresciamo in fretta, e magari facciamo dei gesti miracolosi. Arte autentica, come il servizio di Ash, qualcosa che non t’aspetti da una di un metro e 66, come la sua nuova convinzione dopo anni da buona doppista e un’attitudine poco convinta in singolare, finché non ha imparato come si vince una partita”. Così la descrive il tennista più famoso di quel paradiso australiano, Rod Laver, detto Rocket, razzo, l’unico che ha chiuso due volte il Grande Slam.
Così com’è unica l’erede dell’etnia aborigena Ngarigo, la 23enne che ha interrotto il sogno della rampante Marketa Vondrousova, ascrivendo un nome aussie nell’albo d’oro della sacra terra rossa quarantasei anni dopo il trionfo del 1973 della primatista di 24 Slam delle donne, Margaret Court, nove dopo la finale mancata da Sam Stosur contro “nostra signora dello Slam”, Francesca Schiavone (al Roland Garros 2010). Salendo al numero 2 del mondo, proprio come il suo idolo, la mitica Evonne Goolagong, nel 1976, e poi ascendendo alla poltrona principale.
Lei che era scappata dal tennis perché, da professionista, non riusciva a confermarsi protagonista come da bambina-prodigio, sempre in fortissimo anticipo sui tempi, quando s’era aggiudicata Wimbledon juniores 2011 ad appena 15 anni e, due anni dopo, era arrivata alle finali di doppio pro agli Australian Open come ai Championships. Il Tempio, alle cui porte torna a bussare da aspirante protagonista, dopo gli schiaffi che ha rimediato, andando a ritroso nel tempo, l’anno scorso, quand’ha perso nel terzo turno contro Kasatkina, nel 2017 quando ha salutato il torneo all’esordio contro Svitolina, e addirittura quand’è uscita di scena già nelle qualificazioni, nel 2016.
La forza di Ash Barty è anche nella sua freschezza. Che choc, a 18 anni, nel settembre 2014. Quando molti altri ancora non erano saliti sul treno del successo, la piccola, timida, Ash era saltata giù in corsa e si era allontanata. “Scusate, vi saluto, non ce la faccio”. Proprio come moltissimi aborigeni (da parte di papà), non riusciva proprio ad integrarsi con la città (Melbourne) dove s’era trasferita per diventare grande, non riusciva ad essere comune, allineata, normale nel dorato e asettico mondo del tennis.
“Magari torno, ma ora sento che devo fare questa scelta” spiegò la ragazza di Ipswich che non è transitata per i 200 campi in terra “costruiti dalla Federtennis australiana dieci anni fa proprio per migliorare la tecnica dei ragazzi”. Come racconta Craig Tiley, il direttore della prima prova stagione dello Slam, a gennaio a Melbourne.
“La sua forza è la versatilità, la capacità di giocar bene su tutti i campi, e di avere tutti i colpi. Con tanto coraggio di giocarli davvero tutti e tanta umiltà, non è una specialista della terra rossa, non è una specialista di alcuna superficie, è una specialista del tennis”. La sua forza è l’intelligenza, “la migliore del tennis donne”, puntualizza il connazionale Pat Cash, campione di un indimenticabile Wimbledon 1987, oggi telecronista e allenatore part-time del promettente Alexei Popyrin.
Mentre coach Craig Tyzzer non sa assolutamente che cosa dire, travolto dalle emozioni delle imprese della sua Ash. La sua forza è farsi voler bene da tutti e rappresentare un esempio positivo. “Per noi può avere lo stesso impatto che ha avuto Pat Rafter”, suggerisce Jim Joyce, il mentore, che l’ha inserita nel gruppo prima del dovuto, come si fa con una recluta minorenne dalle enormi potenzialità, e l’ha allevata ad appena quattro anni, vivendo da vicino la clamorosa fuga di Ash.
“Voleva del tempo per sé, una vita normale da adolescente, ma non poteva stare lontana dallo sport e così riabbracciò il cricket che aveva frequentato part-time, insieme al tennis”. Insieme, ha abbracciato una vita da spensierata adolescente: serate con gli amici, birre, ore piccole. Tutti diversivi, a cominciare dal cricket nei Brisbane Heat.
“Anche se, lo so, sono molto meglio a tennis”, ammetteva candidamente Ash. Che, nel dicembre 2015, ha chiesto ancora aiuto al vecchio maestro per rientrare nel tennis. “Stavolta aveva deciso lei che voleva seguire quella strada, non verso il numero 1 del mondo, ma verso i successi ai tornei dello Slam. Pensava a Wimbledon e agli Us Open, la terra del Roland Garros non non era mai stata nei suoi pensieri”. Parigi val bene una messa di 18 mesi alla ricerca di sé. "A vent’anni la vita si vede diversamente che a sedici, capisci che occorre sacrificare qualcosa per raccogliere dei frutti, ora lo so”.
La classifica per un diamante puro non è un problema: alla fine del 2015, la Barty è ripartita addirittura dal numero 623 Wta: “Mi sembra ieri che sono salita su un aereo per ricominciare, da lì in avanti sono successe talmente tante cose!”. Ha chiuso il 2016 da 325 del mondo e, quand’ha concluso il 2017, era già 17, per stabilizzarsi al numero 15 l’anno successivo. Poi lo sprint trionfale in quest’incredibile 2019, segnato dalla finale di Sydney (persa con Kvitova), i quarti agli Australian Open (stessa avversaria), l’exploit di Fed cup contro le americane Kenin e Keys, il successo di Miami (battendo in finale Karolina Pliskova), le imprese di Fed Cup contro Azarenka e Sabalenka, i quarti di Madrid (stop contro Halep).
Poi l’esaltante cavalcata di Parigi, dov’è partita da numero 8 del mondo e ha infilato Pegula, Collins, Petkovic, Kenin, Keys, Anisimova e infine Vondrousova. Mettendo giù 38 ace a fine torneo, che stridono con quel corpicino - è la più piccola fra le top ten - capace di sprigionare scintille imprevedibili per il macchinoso tennis donne, imprimendo alla pallina tagli e direzioni sempre differenti, con un tira e molla a tutto campo che sconvolge qualsiasi schema, passando dalla smorzata alla volée, transitando per sbracciate di dritto e slice di rovescio, in cocktail inebriante ma dal difficile equilibrio fra le parti da dosare. “È come un puzzle, un gioco di scacchi: negli anni, mi hanno insegnato più colpi possibili e in campo sono io che devo prendere le decisioni giuste”.
Molto hanno contribuito anche le esperienze di doppio: dopo le due finali Slam perse nel 2013, e quella del 2017 a Parigi. L’anno scorso, in coppia con Coco Vandeweghe, si è aggiudicata gli Us Open e continua a frequentare la specialità con cui allena servizio, risposta e volée nei tornei, imitando il grande John McEnroe. Infatti, alla vigilia di Parigi, s’è imposta insieme alla Azarenka nel torneo di Roma. Dove, dopo la lunga amicizia con l’ex doppista Casey Dellacqua - dichiaratamente gay, che ha avuto un figlio della sua compagna - si è presentata tutta sorridente accanto al fidanzato col quale gioca a golf. Che protesta: “Ash mi straccia, non s’allena mai, e gioca con handicap 10”.
Lei, la piccola grande Barthy, è una manna per il tennis donne in crisi di talenti. Non è più la ragazzina confusa e depressa, è una giovane, in piena maturazione, disciplinata, talentuosa, matura, conscia di sé. Pronta a diventare l’eroe del tennis australiano e a trascinare frotte di ragazzacci come lei.
“Da piccola non voleva giocare a netball perché era da bambine, così si è buttata nel tennis”, ricorda papà Robert che dove imbiancare continuamente il muro esterno di casa, contro il quale Ash palleggiava per ore e ore, da dopo scuola fino a sera. Che viaggio esaltante dalla piccola Ipswich e dalla piccola Barty alla grande Parigi, alla grande campionessa Slam, alla grande numero 1 del mondo, alla grande favorita Wimbledon.