B entornato. Anzi, welcome back, mr Novak Djokovic. Il serbo di gomma si riscopre campione al torneo di Wimbledon numero 132, dopo un’assenza sul “red carpet” che durava dalle finali Slam del settembre 2016, quand’aveva perso con Stan Wawrinka sotto il traguardo degli Us Open 2016. Non sarebbe poi tantissimo per un comune mortale, ma rappresenta un dramma per l’ultimo “cannibale” del tennis che si è bloccato di colpo, dopo uno sprint impressionante: da Wimbledon 2010, era arrivato 24 volte almeno in semifinale in 26 Majors consecutivi, vincendone 11, da sommare al primo, agli Australia Open 2008, infilando nel suo momento d’oro 41 vittorie di fila, e mantenendo, in contemporanea, la corona dei quattro Slam. E poi che gli è successo? “Negli ultimi 15 mesi ho dovuto superare diversi ostacoli”. Lui stesso, intelligente, acuto, curioso, introspettivo, perfezionista com’è, non sa trovare una sola risposta: mette tutto insieme.
C’è stato il fattore testa, il principale: un po’ per lo stress accumulato per conquistare anche l’ultimo Slam, sulla terra rossa di Parigi, un po’ per essere sempre il primo della classe, l’eroe, il fenomeno, di casa, dei genitori, della piccola Serbia, della classifica mondiale, un po’ perché qualche problemino con la sua signora moglie c’è stato, un po’ perché la soluzione l’ha cercata nel guru Pepe Imaz, e ha cominciato a proclamare “Amore e Pace”. Una camomilla per il killer istinct.
Poi, Nole ha sicuramente accusato il problema fisico al gomito, e quindi al braccio, fino al punto di essere costretto a una intervento chirurgico, e in seguito anche a un nuovo movimento al servizio. Nel caos di dubbi e problemi ci ha pure infilato il cambio di racchetta. Si è allenato meno del solito, ha perso gli automatismi di quel gioco di contrattaccante da fondo campo che era diventato quasi perfetto, e quasi imparabile anche per gli altri Fab Four (Federer, Nadal e Murray). Ha smarrito la fiducia, l’ha trasmessa ai rivali e a tutti gli avversari in generale. Ha cercato aiuto in coach-salvatutti come Andre Agassi e Radeck Stepanek, che operò non ha ascoltato quando gli suggerivano una convalescenza più lunga, e s’è fatto male ancor di più col recupero affrettato sul cemento americano.
Poi, finalmente, forse pensando a Siddartha di Hermann Hesse, che sicuramente ha letto - perché Novak legge e studia anche troppo, a differenza di quasi tutti i colleghi più famosi -, è tornato alle radici, al coach-mamma Marian Vajda, al vecchio team, agli amici che lo proteggevano e lo seguivano come un fratello, a cominciare dal manager, l’italiano Dodo Artaldi. Non è guarito subito. “A Roma ho ricominciato a sentire certe sensazioni, contro Nishikori e poi contro Rafa in semifinale”. Però, come succede spesso agli ammalati, ha avuto una violenta ricaduta, nei quarti di Parigi contro il nostro Marco Cecchinato. Tanto da annunciare: “Non so se gioco sull’erba”.
Invece, al Queen’s ha messo in fila Dimitrov, Chardy e Cilic, aggiudicandosi il titolo e riacquisendo la fiducia dei progressi. Piccole, importantissime sensazioni, che lo riportavano a piccoli, importantissimi, automatismi da campione. Quelli che si sono visti nella trionfale corsa di Wimbledon, contro i più deboli, ma soprattutto nei cinque set della semifinale contro Nadal, che ha chiuso col 10-8 del Nole più feroce.
Con l’aiutino del destino che gli ha confezionato un match diluito in due giorni e sempre sotto il tetto, cioé indoor, e gli ha poi consegnato in finale un attaccante stremato e acciaccato come Kevin Anderson, dopo le rimonte-maratone al quinto set contro Federer (13-11) e soprattutto Isner (26-24, in addirittura 6 ore 36 minuti), e quindi più vulnerabile che mai contro la super-risposta di Belgrado. Con la benedizione di Rafa, che il serbo di gomma - soffocato dalle lacrime - stacca 27-25 nei testa a testa-record: “Per me è al suo top di nuovo, non puoi essere in finale a Wimbledon senza giocare ad altissimo livello”.
Non è un caso che mezzo Anderson metta comunque paura a Nole ancora convalescente come “cannibale” mancando tre set point nel terzo set della finale morta già dopo il 6-2 6-2 iniziale. Non è un caso che la nuova classifica riaccrediti Djokovic fra i “top ten” (numero 10), dopo averlo scacciato dai venti per la prima volta dal 2006. Non è un caso che, dopo Federer e Nadal, sul trono Slam salga Djokovic: i secondi e i giovani non ci sono.