È successo. Non poteva succedere, ma è successo. Già solo con la promozione alle semifinali del torneo di Rotterdam, Roger Federer torna aritmeticamente al numero 1 del mondo, a 36 anni e mezzo. Perché dal gennaio 2017 ha vinto tre tornei dello Slam più altri cinque e sta tenendo un ritmo da assoluto protagonista. Che né i rivali tradizionali, né quelli più giovani riescono a tenere. Se l’avessimo detto ancora un anno fa, non ci avrebbe creduto nessuno, a cominciare dal Magnifico. Ma il formidabile campione svizzero ha trovato proprio nel tempo e nello sport gli alleati migliori. E a patire l’età non è stato lui, come sembrava ineluttabile, quanto chi forza da sempre il proprio fisico in modo violento e irresponsabile, con strappi di anche, spalle, braccia, caviglie, gomiti, giunture da esseri umani e non bionici, a dispetto di accurate e maniacali preparazioni atletiche.
Il tennis non è riducibile al pugilato o alla ginnastica, alla maratona o al tiro al bersaglio, non è immersione in apnea e nemmeno tiro alla fune, non è uno sport singolo, caratterizzato da un gesto unico, è più complicato del decathlon, è “noble art”. E si vendica di chi maltratta la racchetta, usandola come una clava, anche se la tecnologia ha reso l’attrezzo sempre più facile, indurendo tutte le altre condizioni, dalle palle ai campi. Il tennis è geometrie, sensibilità, intuizione, varietà, non demolizione fisica dell’avversario con la conquista sistematica di un centimetro di campo dopo l’altro.
Il tennis, col massimo rispetto per tutti gli altri interpreti, è Roger Federer. Che, come tutti i fuoriclasse, di qualsiasi campo parliamo, ha bisogno di aiuto per esaltarsi e rendere al meglio nell’esercizio per cui è nato. Quest’aiuto, per Roger, si chiama tattica. Che lui, da fenomeno istintivo e naturale, intimamente non possiede. Come gli manca di certo l’”animus pugnandi” del rivale storico, Nadal. Compensa un po’ con la signora Federer, Mirka, ex tennista slovacca che conosce annessi e connessi dell’essere giocatore e dell’essere campione, un po’ con mastro Paganini, il super preparatore atletico che gli inventa continuamente esercizi alternativi ma divertenti e produttivi, e con Ivan Ljubicic, l’ex profugo bosniaco da Riccardo Piatti, di grande intelligenza che è arrivato al numero 3 del mondo, con qualità tecniche mille volte inferiori del più grande tennista di sempre ma istinto di sopravvivenza decuplicato.
Il Magnifico è il più grande di sempre non, semplicisticamente, per i 20 titoli-reccord dello Slam, in 30 finali-record (10 di fila, con 23 semifinali senza interruzioni) o per gli 8 Wimbledon, sempre record, né per tutti gli altri straordinari numeri dei quali si alimentano i suoi tifosi più ciechi. Ma perché interpreta il tennis in modo unico, ideale, assolutamente perfetto e valido per tutti i palati, con varietà e personalità ineguagliabili, come solo gli immortali dello sport sanno fare. Da Alì a Jordan, da Tiger a Pelé, Maradona, Messi, Carl Lewis, Bolt, Valentino Rossi e pochissimi, davvero pochissimi, altri. Fenomeni sempre moderni, sempre capaci di rovesciare la realtà con un colpo di genio, magari sconosciuto sui manuali, o addirittura con un autentico miracolo.
Federer è stato per la prima volta n. 1 della classifica mondiale il 2 febbraio 2004, ci è rimasto anche 302 settimane, di cui 237 consecutive, e ci torna dopo un’assenza incredibile, che durava dal 4 ottobre del 2012. Qualcuno dirà che ha sempre bisogno di nuove sfide, che vuole prendersi una soddisfazione in più, che vuole dare un altro schiaffo al solito Rafa, che adora sorprendere ancora una volta se stesso, che vuole auto-premiarsi per i sacrifici che ha sicuramente fatto da quando si è rotto il ginocchio, nel gennaio 2016. La verità sta a metà fra tutte queste cose e altre, inconfessabili.
Intimamente, Roger si sente ancora incompiuto. Lui, così bravo, così vincente, così invidiato, è in realtà alla ricerca del tempo perduto. Oggi che sa, oggi che capisce, oggi che conosce le risposte, oggi che gioca più fluido e meglio che mai, oggi che ha imparato a tirare il rovescio e a battere Nadal con una continuità che non ha mai posseduto, si guarda allo specchio e si chiede: sarebbero mai diventati così forti Rafa e Novak Djokovic senza le sue paure, senza quelle distrazioni inversamente proporzionate ai famosi “Federer moments” di sublimazione tennistica ed atletica? Intanto, culla il legittimo desiderio di un padre che vuole mostrare in diretta ai figli quant’è grande, e amato ancora oggi, e non soltanto ieri l’altro, per cui procrastina il giorno dell’addio e si alza tutte le mattine con la segreta speranza di correre dietro la palla gialla davvero fino ai 40 anni, come ha rivelato sorridendo, ma non scherzando.
Nessuno meglio di lui può ricordare, e amaramente, quando soffriva il tennis perché voleva dimostrare a tutti i costi di essere il più bravo, e soffriva gli avversari che erano più atleti, e masticava amaro per la falsa partenza negli Slam, per la maturazione umana più lenta, perché non era sciolto e libero nelle scelte in campo, perché svicolava dagli allenatori scomodi e si sceglieva invece quelli più tifosi e proni. Mentre si stupisce e nello stesso tempo rimane attratto e incuriosito sempre più dall’insostenibile leggerezza del successo che sembra svanito e invece gli ha regalato altri tre Slam e promette di regalargli molto ancora. Con gli altri Fab Four a mezzo servizio se non fuori gioco.
Davanti a tutto ciò, come poteva impedire al suo orgoglio di farsi re della classifica un’altra volta ancora? E come poteva fermarsi davanti a Ruben Bemelmans, Philipp Kohlschreiber e Robin Haase? Come poteva vietarsi l’occasione di tornare per la quarta volta numero 1 e stabilire il nuovo record di più anziano di sempre nell'era open, detronizzando Andre Agassi (che ci riuscì a 33 anni e 4 mesi)? Non poteva, non doveva. Perciò, lo ringraziamo ancora e sempre. Perché esiste, e perché ci ha regalato il tennis che sogniamo ogni qual volta prendiamo in mano una racchetta.