D ici biathlon e dici fatica, gestione delle energie, volontà ferrea, resistenza e crudeltà. Perché arrivi ad un poligono, coi muscoli induriti dalla corsa sugli sci e il cuore che va ancora a mille, ma il cervello ordina di rilassarti, prendere la mira, abbassare le pulsazioni, centrare con la carabina bersagli di pochi centimetri a cinquanta metri di distanza, una volta all’inpiedi, una volta disteso. Sapendo che quei momenti, quei millimetri di precisione, decidono quasi sempre la gara. Dici biathlon al maschile, e dici Martin Fourcade, il portabandiera francese all’Olimpiade di Pyeongchang. Ma, soprattutto dici mito, dici campione-record: doppio oro a Sochi 2014 e primo favorito in Corea, unico a vincere sei volte consecutive la coppa del Mondo, unico ad aggiudicarsi 14 gare in una stagione (2016-2017), unico a portarsi a casa 27 coppe di cristallo, 11 volte campione del mondo dal 2011 al 2017 (dieci individuale), 18 podi in altrettante gare, a cavallo delle ultime due stagioni. Troppi numeri. Siamo d’accordo. Ma, altrimenti, un dominatore come il 29enne col sorriso da marpione come lo descrivi?
Vittorie su vittorie, ma l’orgoglioso figlio dei Pirenei ne ha una sola nella testa: “Ho bisogno della coppa del Mondo per i Giochi Olimpici, che sono l’obiettivo principale, ma non posso pensare di arrivarci senza una super-stagione e senza punti di riferimento: altrimenti, come potrei essere sicuro di vincere l’Olimpiade?”. Soprattutto, abituandosi alle vittorie, non s’è ubriacato di vittorie: “La stagione scorsa è stata un po’ da fantascienza, irripetibile, lo, devo essere conscio di questa cosa”. Intanto, è sua anche la vittoria nell’ultima gara prima dei Giochi, ad Anterselva, la numero 69 in carriera, a tre settimane da Pyeongchang.
La più suadente, perché, nel conquistare il quindicesimo podio su quindici gare individuali, Fourcade ha battuto il rivale tradizionale, Johannes Boe che pure aveva dominato sprint e inseguimento, e si avvale, come tutta la squadra norvegese, dell’aiuto di Sigfried Mazet, il mentore proprio di Fourcade. Ebbene, Martin, con quella faccia un po’ così di chi ha il dono dell’esperienza e della classe, dopo la disastrosa gara di velocità, è risalito dal trentaduesimo al quinto posto nell’inseguimento, e poi sui 15 chilometri di partenza di massa ha piazzato la zampata decisiva, grazie al primo poligono di tiro. Relegando al sesto posto della classifica generale il vikingo, più veemente, coi suoi 25 anni.
In realtà i biathleti Fourcade sono due: Martin ha un fratello maggiore di quattro anni, Simon. Che proprio il comune sport e proprio i Giochi olimpici hanno diviso per due anni. Successe a Vancouver 2010. “Il grande Simon”, come lo chiama Martin, era in testa alla classica generale di coppa del Mondo (senza aver mai vinto una prova individuale, e mai l’ha vinta…), mentre Martin era solo un giovane di talento senza tanta applicazione. Ma in Canada il più anziano finì appena tredicesimo, mentre il minore vinse l’argento nella mass start. Sul podio, Martin pianse, un po’ di gioia, un po’ di disperazione: "Era la prima volta che battevo mio fratello, dal quale ho appreso la professionalità, la necessità di sacrificarsi per ottenere risultati. E sono triste per la sua delusione”. Anche Simon pianse, ma per sentimenti affatto nobili: "Volevo essere il migliore, è stato mio fratello a farcela, senza neppure volerlo veramente. Un’esperienza dura. È difficile ammetterlo, ma ero invidioso di lui. Che sentimento strano e duro da accettare, ma continuavo a pensare: “Siamo usciti dalla stessa pancia, perché lui sì e io no?”.
Simon s’era allenato come un pazzo, sette giorni su sette, Simon si era convertito anche all’Islam per cercare nuove energie dentro se stesso, Simon si era sacrificato per allevare il fratello. Martin aveva seguito in silenzio il suo esempio, Martin non aveva avuto pressioni, Martin aveva seguito il solco. Simon s’è macerato per anni nella sua invidia, ossessionato dal desiderio di riscatto, ma s’è dovuto accontentare di una Coppa di specialità, parecchi podi in coppa del Mondo e qualche medaglia mondiale con la staffetta. Martin è diventato il Fourcade vincente, ed ha demolito ogni record, raggiungendo l’acme dei due ori e dell’argento olimpici a Sochi 2014. Grazie a una impressionante ricerca della perfezione, dai materiali all’allenamento, dalla tecnica alla preparazione mentale. Caratteristiche da vero campione che oggi lo spingono a pensare al domani, fuori dalla pista: “Non credo che potrò essere un buon allenatore, pretendo sempre troppo da me stesso e non potrei fare di meno con un altro. Ma vorrei rimanere nel biathlon, credo di essere stato un buon spot per far pubblicità al mio sport, anche se c’è ancora molto da fare”.
C’è sicuramente da fare anche fra i Fourcade che, intanto, si sono ritrovati, umanamente, come fratelli. Simon: "Ci siamo riavvicinati, il nostro rapporto è più solido che mai, siamo ottimi amici”. Martin: "Siamo sempre stati una famiglia molto legata, mamma ha sofferto moltissimo nel vederci divisi. Quando Simon ha accettato che sono più forte di lui, e non può farci niente, tutto è tornato alla normalità”. Agonisticamente, infatti, nel biathlon, la distanza rimane ed è evidente: il 6 gennaio di quest’anno, mentre Simon vinceva la IBU Cup, una prova minore, mille chilometri più in là, Martin firmava l’ennesimo record vincendo l’inseguimento di Oberhof. E quando Martin - il più vincente atleta di Francia - sarà portabandiera a Pyeongchang, Simon si batterà nel campionato europeo in Val Ridanna.
Intanto i giovani si bevono l’autobiografia di Martin Fourcade il fenomeno: “Il mio sogno d’oro e di neve”. E si esaltano coi suoi valori e il suo esempio di atleta e di uomo.