AGI – “A causa degli ultimi due esiti delle qualificazioni, la generazione Z non ha avuto la possibilità di tifare la Nazionale azzurra ai Mondiali di calcio, di vivere i momenti di tensione condivisa che caratterizzano le estati in piazza, di assistere ai rigori destinati a entrare nella storia del calcio e di ascoltare ripetutamente le frasi iconiche dei cronisti emozionati. Nonostante le possibili conseguenze emozionali di questa situazione, non ci sono i presupposti di un fenomeno sociologico”. Ad approfondire questa tematica con l’AGI da un punto di vista sociale è Stefano Tomelleri, ordinario di Sociologia e Sociologia dello sport presso l’Università degli sudi di Bergamo, commentando le possibili implicazioni della mancata qualificazione ai Mondiali del 2022 in Qatar e delle ripercussioni sulla generazione Z.
“Anzitutto – afferma l’esperto – è fondamentale distinguere il calcio come fenomeno mediatico dalla cultura popolare che ruota attorno a questo sport. Si pensi che in Italia ogni paesino o cittadella in campagna, mare o montagna vanta almeno un campetto da calcio, dove la domenica si giocano in media circa 16 mila partite a livello nazionale. Il calcio è quindi uno degli sport più diffusi, e non credo che basti un paio di mancate qualificazioni per provocare una qualunque forma di disaffezione nelle giovani generazioni, che comunque hanno assistito a una vittoria significativa nella competizione internazionale degli Europei”.
“Sicuramente l’impossibilità di partecipare ai Mondiali lascia amareggiati e può costituire argomento di conversazione all’interno delle stesse famiglie – aggiunge Tomelleri – ma il fenomeno calcio si sviluppa su più livelli, ci sono i club, c’è la Serie A, la Champions, gli Europei e tutte le partite che la stragrande maggioranza di cittadini italiani può disputare sul campetto di quartiere”.
I Mondiali costituiscono sicuramente un momento di inclusività molto particolare, tanto che spesso anche chi non è propriamente appassionato di calcio si interessa delle partite della Nazionale, che, con il fascino del folklore comune, coinvolgono un pubblico generalmente più ampio. “Credo che le conseguenze di questa situazione siano mediatiche più che sociologiche – sottolinea il docente – i media svolgono un ruolo importante nel favorire la promozione di determinati sport. Basti pensare allo spazio mediatico che possono avere sport come il nuoto o l’atletica alle Olimpiadi o la nazionale di Rugby al Torneo Sei Nazioni”.
“Da approfondire è invece il discorso sulla pandemia e il legame con lo sport – osserva Tomelleri – l’impossibilità di sperimentare la socialità attraverso le relazioni tipiche dell’ambito sportivo ha provocato un impatto sulle giovani generazioni che a mio parere è stato superiore rispetto all’amarezza della mancata qualificazione ai mondiali”.
Sebbene le connessioni sociali in ambito scolastico siano state garantite dalla didattica a distanza, l’insegnamento e la pratica dello sport hanno subito una battuta d’arresto su una scala molto più ampia. “Durante il lockdown l’unica forma di attività fisica concessa era la corsa – ricorda l’esperto – si è perso il momento di condivisione e di interazione dello sport. Anche nelle attività individuali, come il nuoto o la palestra, infatti, c’è una forma di incontro, che riguarda l’ambiente di allenamento, ma anche lo spogliatoio. Con la pandemia questa dimensione è stata completamente soverchiata dall’anonimato della corsa, che, per quanto salutare e positiva per l’organismo, se non in rari casi, è poco orientata alla condivisione e alla mediazione del contatto con il prossimo”.
“Allo stesso tempo – continua il docente – l’assenza di tifoseria negli stadi, ai campionati locali, regionali o nazionali, ma anche nelle piscine, restituisce la misura dell’impatto della pandemia nello sport. Fin dai tempi degli anfiteatri in Grecia, l’attività fisica è associata alla presenza di un pubblico, che in questi due anni è venuto meno. Quando si assiste a un match allo stadio, si avverte enormemente il senso di partecipazione a un evento collettivo”.
Oltre al senso di sconforto per gli atleti e i professionisti, quindi, l’assenza di supporter durante un match potrebbe aver influenzato la percezione di qualunque performance. “Credo che la passione per il calcio sia profondamente radicata nella cultura italiana – conclude Tomelleri – dalla partita di calcetto con gli amici alla serie A, i ragazzi dell’ultima generazione possono contare su una serie di spunti per sentirsi parte di un evento collettivo. La mancata qualificazione ai Mondiali può quindi essere inquadrata in una sfera emozionale più che sociologica. Al di là dell’amarezza per l’esito dell’ultima partita, resta vivo il ricordo della vittoria agli Europei. In fin dei conti, ci saranno altre occasioni per vivere l’euforia delle partite dei Mondiali, auspicabilmente, potremo tornare in piazza a tifare in sicurezza per la nazionale”.