AGI - Il primo “Maestro” è stato Stan Smith, l’ultimo, lo scorso anno a Londra, Daniil Medvedev, il prossimo si diplomerà dal 14 al 21 novembre a Torino. Come tutti gli appuntamenti chiave della vita e dello sport le ATP Finals (ex Masters) hanno il sapore del momento storico. Sia quando si vince, certo, ma anche e soprattutto quando si perde.
O quando un qualche attore di questa rappresentazione sportiva diventa, a volte suo malgrado, protagonista di un passaggio più memorabile degli aridi numeri che comunicano l’esito dell’incontro, delle sei vittorie totali di Federer, delle cinque di Lendl, Sampras e Djokovic, delle quattro di Nastase…
Un esempio? Rafa Nadal.Le Finals non le ha mai vinte, ha giocato in tutto due finali (una contro Federer nel 2005 e una contro Djojkovic cinque anni dopo) raggranellando un misero set.
Quest’anno a Torino neanche potrà provarci visto che è fermo da mesi e lo rivedremo in campo solo nel 2022. Perché uno capace di vincere venti titoli dello Slam non sia mai riuscito a vincere il torneo dei campioni resta un mistero.
È come se (forse perché a fine stagione uno dal tennis assai usurante come Rafa è arrivato sempre un po’ spremuto? Perché dopo 12 mesi di corse e lift le sue articolazioni e i suoi neuroni gli hanno chiesto il conto? Chissà che gli dei gli avessero imposto un limite. Come appena successo peraltro con il Grande Slam di Djokovic, svanito proprio sul traguardo dello Us Open.
Per contro Federer è il recordman dei Master, sei volte nell’albo d’oro, mai nessuno come lui. E avrebbero potuto essere sette le vittorie, delle quali cinque clamorosamente di fila se in uno dei quei “moments” prolungati di cui sopra, in uno degli incontri più memorabili della storia del torneo, David Nalbandian, in quella che fu la giornata da incorniciare della sua vita tennistica, nel 2005 non l’avesse superato al tiebreak del quinto set a Shanghai rimontando da due set.
Nella storia dei "magic moments", c'è sicuramente quello del Masters 1972: si gioca a Barcellona, semifinale fra due americani. Gorman e Smith. Gorman arriva al matchpoint. Lo attende una finale contro Ilie Nastase. Ma prima di servire si ritira. Si è infortunato alla schiena e sa bene che quella finale non potrà mai giocarla.
Con un gesto che potrebbe rientrare a pienissimo titolo nell’insieme dei “Gesti Bianchi” (che non solo solo un colore dell’abbigliamento ma anche un atteggiamento dell’anima) Tom si accontenta di aver visto la finale-terra promessa e lascia campo aperto a Stan. Che poi, quella finale la perderà al quinto contro il rumeno.
Già, Ilie Nastase. Tre anni dopo, a Stoccolma, fu lui il protagonista di uno dei momenti chiave nella storia dell’intero tennis. Fra lui Arthur Ashe non correva buon sangue. Ilie lo apostrofava, con la strafottenza che era il suo marchio di fabbrica, “nigger” e non perdeva occasione di deriderlo o provare a farlo. I due s’incontrarono nel round robin.
L’incontro pendeva nettamente a favore di Arthur: terzo set, 4-1 a suo favore e 15-40 sul servizio di Nastase. Il quale tirò una prima palla proprio quando Ashe stava segnalando di non essere pronto. Il rumeno iniziò a cincischiare e a non riprendere il gioco. Trascorsero lunghi minuti. Al termine dei quali Ashe, cogliendo l’occasione che attendeva da tempo di umiliare il nemico, raccolse le sue cose e uscì dal campo.Che fare? In linea teorica Ashe avrebbe dovuto essere squalificato ma nessuno se la sentì. Alla fine la vittoria fu assegnata a lui con la giustificazione che l’americano aveva abbandonato il campo giusto un attimo prima che Nastase fosse squalificato per condotta anti sportiva. Il codice di condotta che oggi è composto da oltre 400 regole e allora era poco più che un pro-forma, nacque quel giorno.
E che dire del giorno in cui (forse l’unico della sua carriera) l’orso Borg perse la testa? E contro McEnroe per di più? Durante il tiebreak del secondo set (New York 1980) il giudice di sedia Mike Lugg chiamò fuori un passante di Bjorn che perfino Mac aveva visto dentro.
Lo svedese, incredulo e furioso come mai, si avvicinò all’arbitro e lì rimase. Prima Lugg cercò di farlo ragionare ma poi visto che (sotto gli occhi stupefatti di McEnroe!) la situazione non si sbloccava gli comminò un penalty point. Poi un altro. Il Madison Squadre Garden era una bolgia.
Si ricominciò a giocare sul 6-3 per l’americano dopo una sosta interminabile e in un clima da corrida. Pensate: non fu l’unico episodio folle di quella edizione memorabile.
Nel terzo giorno dei Round Robin Bjorn e Mac furono protagonisti di due fra i match più assurdi delle loro carriere. Mac, già fuori dai giochi, si fece battere dall’argentino Josè Luis Clerc (un altro caratterino mica da ridere) per 6-0-6-3.
E Bjorn, già qualificato, perse 6-0 6-3 contro Gene Mayer. Due match farsa da parte dei due giocatori più rappresentativi della storia del tennis. Pazzesco.
Ma quale è stata la miglior finale della storia della Finals? In pochi hanno dubbi. Siamo nel 1988, sempre al Madison. Di fronte ci sono Boris Becker e Ivan Lendl. Si arriva dopo quattro ore e mezza di gioco al tiebreak del quinto set. L’ultimo scambio durò 37 colpi e si concluse, quasi che le divinità del tennis avessero deciso di prendere loro in mano la situazione, con un rovescio di Boris che si stampò sul nastro ma grazie alla rotazione superò la rete e atterrò beffardo nel campo di Ivan. Il tedesco vinse così il suo primo titolo e subito dopo scagliò la racchetta verso il pubblico con un gesto che oggi sarebbe sanzionato duramente.
Un nastro dopo poco meno di cinque ore di battaglia furiosa. Una sliding door che, si dice, abbia ispirato, anni dopo, la sequenza iniziale di “Match Point” di Woody Allen.