AGI - Tutto è cominciato con Jack Kramer e Stan Smith, pionieri dell’evento tennistico che oggi gode della denominazione “Atp Finals” e che allora si chiamava semplicemente il Masters, termine mutuato dal golf, (è uno dei quattro Major della stagione).
Il primo, ex tennista, imprenditore americano di pura confessione repubblicana, fu colui che nel 1970 il Masters Gran Prix lo creò. Il secondo, grande tennista americano, fu il giocatore che vinse la prima edizione del torneo disputata (con soli sei giocatori anziché gli otto odierni) a Tokyo, primo nella classifica degli incontri vinti e persi, davanti a Rod Laver.
Personaggi ammantati ormai, e a ragione, dall’aura del mito e non solo per aver battezzato il torneo che dal prossimo 14 novembre attirerà su se stesso e su Torino gli occhi di un bel po’ di mondo.
La storia del Masters è la storia di un torneo oggi ricchissimo (quando Smith vinse a Tokyo incassò all’incirca 25.000 dollari, l’anno scorso Danil Medvedev ha ricevuto per la vittoria un assegno da un milione e mezzo) unico nel suo genere la cui nascita è coincisa con la più grande rivoluzione della storia del tennis.
Quella che sul finire dei mitici anni Sessanta vide concludersi definitivamente la separazione fra giocatori professionisti e dilettanti: nei tornei dello Slam fino ad allora potevano giocare solo i secondi.
Il parto dell’era Open, nel ’69, che sancì il liberi tutti, annullando la disparità di trattamento tra dilettanti e professionisti, pose fine ad un’epoca aprendone un’altra. Kramer, che aveva fondato, pare in uno scantinato, l’Associazione dei tennisti professionisti (maschi, l’Atp, quella femminile, la Wta, sarebbe venuta alla luce l’anno dopo per iniziativa di Billie Jean King) pensa ad un torneo che sia la logica conclusione di un circuito nuovo, il Grand Prix, che all’inizio comprendeva venti tornei e che assegnava punti in base ai piazzamenti e al valore di ogni appuntamento. I migliori tennisti (all’inizio sei, oggi otto ) si sarebbero sfidati nel Masters Gran Prix, il cui nome fu poi declinato negli anni in Atp tour world Championship, Tennis Masters Cup e quindi Atp world Finals.
I giocatori erano così invogliati (visto che avrebbero incassato denaro sia nei singoli appuntamenti sia nel Masters finale) a giocare il Grand Prix e non in altri circuiti “privati”.
Il calcolo dei punti era piuttosto artigianale se lo si paragona a oggi, ma la sostanza era rispettata: al Masters giocavano i migliori. L’obiettivo è stato, da subito competere con iniziative del genere cui avevano dato vita altri circuiti: resta storica la rivalità con il WCT di Dallas, inventato e pagato dal petroliere texano Lamar Hunt.
Ma anche per differenziarsi da quel torneo Kramer decise che il Masters si dovesse giocare con due round robin (gironi all’italiana) invece che a eliminazione diretta come, per l’appunto, il WCT.
Nei primi due anni non ci furono semifinali e finali, chi ha vinto ci riuscì in forza del numero di vittorie. La ragione era commerciale: chi compra un biglietto sa che in ogni giorno dei gironi vedrà comunque i top players.
Ma la formula è imperfetta per natura: nel terzo giorno di gara il concetto di vincere-ad-ogni-costo può andare in crisi per diversi motivi rendendo così certi incontri inevitabilmente ammantati di un’aura di sospetto: chi è già qualificato può scendere in campo con minor determinazione, chi è già fuori chissà se giocherà col coltello fra i denti.