N el 2014, quando Tokyo ha vinto l’assegnazione dei Giochi olimpici estivi del 2020, per il Giappone sembrava un’impresa impossibile. Soltanto tre anni prima, l’11 marzo del 2011, l’area centrale del Tohoku era stata colpita da una triplice catastrofe: prima il terribile terremoto, il più potente mai registrato; poi il maremoto, con onde alte oltre undici metri; infine l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima. La scommessa olimpica, però, era stata cercata e vinta per un motivo preciso: le Olimpiadi servivano al governo giapponese soprattutto per avere una roadmap, un programma di ricostruzione a tappe obbligate che avrebbe dovuto portare il paese a rinascere, dal punto di vista dello sviluppo economico ed energetico, in tempo per i Giochi olimpici. Tokyo avrebbe avuto sei anni per uscire dall’emergenza e sfruttare il periodo di crisi per rilanciarsi in una nuova prospettiva green.
Obiettivi e realtà
Non è andata proprio così. Il ritorno sulla scena mondiale del Giappone, la ricostruzione delle aree più colpite dal terremoto e dallo tsunami, ma soprattutto il ripensamento della politica energetica giapponese dopo il disastro nucleare non hanno dato i frutti sperati. L’ex primo ministro Shinzo Abe, alfiere di questa trasformazione, voleva rendere il Giappone leader nella battaglia globale per la riduzione delle emissioni e contro i cambiamenti climatici. Eppure la storia nipponica degli ultimi anni dimostra che la politica da sola non basta. La trasformazione deve essere accompagnata dal coinvolgimento della società, da una comunicazione efficace, dalla previsione degli imprevisti. Nell’anno 2020 l’energia rinnovabile ha rappresentato soltanto il 18 percento della produzione nazionale di energia elettrica giapponese. Il paese del Sol levante è ancora il quinto al mondo per emissioni di carbonio, e secondo quanto annunciato da Shinzo Abe nel 2018, l’obiettivo è di far diventare rinnovabile il 24 percento dell’energia totale prodotta entro il 2030. Due anni dopo, il successore di Abe, il suo braccio destro Yoshihide Suga, ha alzato ancora di più la posta in gioco. Il 26 ottobre del 2020, nel pieno della pandemia, Suga ha annunciato alla Dieta, il parlamento nazionale, che il Giappone raggiungerà le zero emissioni entro il 2050. Un piano a dir poco ambizioso, ma che riguarda soprattutto la competizione politica tra i paesi dell’Asia orientale. Nello stesso periodo del 2020, infatti, il presidente cinese Xi Jinping aveva dichiarato che la Cina – il paese che produce più emissioni al mondo – raggiungerà la carbon-neutrality entro il 2060. Contemporaneamente anche la Corea del sud del democratico Moon Jae-in aveva annunciato il suo “Green New Deal”: 54,3 miliardi di euro da investire nella transizione green, e la neutralità entro il 2050. Tokyo non poteva essere da meno.
I volti della trasformazione
Dal punto di vista politico, l’esecutivo giapponese ha almeno due volti a rappresentare questa trasformazione. Da un lato c’è Taro Kono, ex ministro degli Esteri, poi della Difesa, e da quasi un anno ministro per le Riforme amministrative. È uno dei politici più conosciuti all’estero: ottimo diplomatico e comunicatore, gli è stato affidato il compito di rivoluzionare il mastodontico freno al rilancio green giapponese, la burocrazia. Appena arrivato al dicastero, Kono ha promesso di eliminare, o almeno ridurre, una tradizione tutta nipponica, quella degli hanko. I timbri giapponesi, che si usano al posto della firma su carta nei documenti ufficiali, sono un piccolo esempio di quanto la rivoluzione digitale in Giappone si sia fermata agli anni Ottanta – un altro esempio: per moltissime procedure pubbliche c’è ancora bisogno dell’invio di fax. L’uso della carta negli uffici della Pubblica amministrazione giapponese non è mai stato sostituito dal digitale, ed è un problema soprattutto simbolico e di immagine: “Lo stesso governo deve mettersi a lavorare per ridurre le emissioni e aiutarci a raggiungere l’obiettivo del 2050”, ha detto Taro Kono durante una conferenza stampa a dicembre: “Per questo stiamo chiedendo ai ministeri di aumentare l’uso di energie rinnovabili fino al 30 percento del loro fabbisogno totale”.
L’altro volto della transizione green giapponese è ancora più popolare. Si tratta di Shinjiro Koizumi, classe 1981, figlio dello storico primo ministro Jun’ichiro Koizumi. Al di là del capitale politico che si porta dietro grazie a suo padre, Koizumi junior rappresenta il volto nuovo e giovane della politica giapponese anche e soprattutto sui temi ambientali. Dimostra spesso un’attenzione quasi personale nei confronti di certi temi, per esempio quando critica il suo stesso governo, accusandolo di fare troppi pochi passi concreti verso l’annunciato obiettivo del 2050. All’ultimo G7 dei ministri dell’Ambiente, Koizumi ha detto che il Giappone non esporterà più tecnologia per la produzione di centrali a carbone, e che le eccezioni che erano state autorizzate degli ultimi anni non saranno più consentite.
Olimpiadi a impatto ridotto
Dal punto di vista soprattutto comunicativo, la roadmap ecologica immaginata prima da Abe e poi da Suga avrebbe dovuto coincidere con i Giochi olimpici giapponesi. Erano stati previsti per l’estate del 2020, e poi la pandemia da Sars-Cov-2 ha costretto il Comitato olimpico internazionale a rimandarli all’estate del 2021. Nei progetti del governo centrale avrebbero dovuto essere le prime Olimpiadi a impatto zero, ma il rinvio di un anno, con le relative spese per la manutenzione degli impianti, unite alle stringenti misure di sicurezza anti-contagio hanno ridotto di molto la possibilità di essere davvero a impatto zero. Il Comitato organizzatore di Tokyo 2020 aveva pubblicato un “report sulla sostenibilità” già nel 2019, che poi è stato aggiornato secondo le ultime disposizioni in materia di sicurezza contro i contagi – per esempio l’uso della plastica e del monouso, che si voleva evitare del tutto, è stato reintrodotto. Tuttavia il documento “Towards Zero Carbon” comprende delle novità interessanti riguardo alla capacità dei mega-eventi di avere un impatto ridotto sulle città e di essere trasparenti per quel che concerne la loro sostenibilità. Anzitutto, le energie rinnovabili: secondo quanto ufficializzato dal Comitato, l’elettricità usata per alimentari i Giochi è al cento percento rinnovabile. Le fonti di energia sono tracciate e verificabili, e “includeranno elettricità provenienti dalle aree colpite dal terremoto e dallo tsunami del 2011”. L’impatto sulle emissioni, secondo i calcoli degli esperti nipponici, sarà inferiore rispetto alle precedenti edizioni dei Giochi olimpici estivi. La previsione è che l’evento produrrà 2,73 milioni di tonnellate di emissioni, “una riduzione di 280 mila tonnellate di CO2”. Grazie a una partnership con Toyota, colosso automobilistico giapponese, l’idrogeno sarà il carburante ufficiale delle Olimpiadi. Non solo gli atleti e le delegazioni si sposteranno su almeno cinquecento veicoli elettrici messi a disposizione dall’organizzazione, ma perfino le torce olimpiche saranno alimentate a idrogeno. E poi naturalmente ci sono gli aspetti più simbolici e d’immagine: i podi dove verranno consegnate le medaglie saranno tutti prodotti da materiale riciclato, nell’ambito della promozione delle “3R”, “reduce, reuse, recycle”; gran parte dell’attrezzatura verrà presa a noleggio o in leasing, senza acquisti di prima mano.
Ma al di là della vetrina olimpica, che sarà fondamentale per promuovere la trasformazione del Giappone, nel paese del Sol levante il tema dei cambiamenti climatici si avverte sempre di più anche nella vita quotidiana dei giapponesi: l’intensificazione della stagione dei tifoni, la siccità, le ondate di caldo letali per la popolazione più anziana degli ultimi anni hanno fatto diventare il tema ecologico una priorità soprattutto tra i cittadini. Ma per un paese dipendente dalle importazioni, con poche risorse naturali, resta cruciale il problema energetico, che è peggiorato enormemente dopo il 2011.
Il dibattito sul nucleare
L’11 marzo di quell’anno l’incidente alla centrale nucleare di Fukushima ha aperto la strada a un movimento antinuclearista trasversale e determinato. La gestione dell’incidente fu peggiorata dal tentativo della società responsabile dell’impianto, la Tepco, di minimizzare i danni, ma anche dal governo centrale, che nei primi giorni post-disastro doveva far fronte a migliaia di morti per lo tsunami e ad altrettanti sfollati. L’opinione pubblica criticò entrambi, e nel giro di poche settimane la fiducia nei confronti dell’energia nucleare da parte dei cittadini crollò ai minimi storici. Lentamente, con la scusa della manutenzione, il governo di Tokyo decise di spegnere 46 dei suoi 50 reattori nucleari per ripensarne i livelli di sicurezza. Ma nel 2011 l’energia atomica rappresentava un terzo dell’intero fabbisogno energetico del paese. Per la prima volta dal periodo bellico tornarono i razionamenti, megalopoli come Tokyo spensero le loro luci, perfino i tipici distributori di bevande nelle strade. È allora che iniziò uno dei più importanti dibattiti pubblici del Giappone moderno: l’atomica era stata il simbolo del rilancio economico degli anni Ottanta, come poteva il paese tornare a crescere dopo vent’anni di stagnazione senza sufficiente energia?
Il governo di Tokyo guidato dal Partito liberal democratico, nella sua strategia energetica, parla di un mix di produzione. Per arrivare all’obiettivo del 2050 a zero emissioni, spiega l’esecutivo nipponico, è necessario riattivare i reattori che rispondono alle nuove regole di sicurezza: l’energia nucleare è energia pulita, e se a oggi soltanto il 6 percento del fabbisogno viene dalle centrali atomiche, l’obiettivo è tornare al 20 percento dell’energia prodotta dal nucleare. In questo modo, il resto della domanda di elettricità potrebbe essere così suddiviso: la fetta più importante, il 50-60 percento, potrà essere sostenuta da fonti rinnovabili; il 10-20 percento da impianti termoelettrici e il resto (soprattutto per quanto riguarda il settore industriale) potrà essere prodotto da idrogeno pulito.
Non tutti sono d’accordo con questa pianificazione. Il ministro dell’Ambiente Shinjiro Koizumi fa parte della corrente antinuclearista del governo, e ha più volte rinnovato l’invito a guardare al “modello California” dei pannelli solari sulle case e gli edifici per aumentare la produzione di energia rinnovabile. A opporsi alla “Green Growth Strategy” del governo di Tokyo c’è poi il settore automobilistico, che rappresenta il 2,5 percento del PIL giapponese. Secondo la roadmap verde di Yoshihide Suga, il Giappone cesserà la vendita di veicoli a benzina entro il 2035, ma le case automobilistiche chiedono garanzie sul fatto che si possa effettivamente produrre un veicolo a zero emissioni e che siano alimentate da energia pulita. Altre critiche alla fattibilità del piano sono arrivate dal settore siderurgico e dalle imprese di costruzione.
Come molte altre potenze industriali, soprattutto asiatiche, il Giappone dovrà fare i conti con le promesse fatte alla Conferenza di Parigi sul clima e con gli obiettivi ecologici che si è posto. Ma allo stesso tempo dovrà essere capace di non strozzare i settori chiave della sua economia.
*Giulia Pompili è giornalista del Foglio dal 2010, dove segue soprattutto le notizie dell’Asia orientale. Dal 2017 è autrice della newsletter Katane, la prima in italiano sulle vicende asiatiche. è autrice del libro “Sotto lo stesso cielo” (Mondadori). Articolo pubblicato sul numero di luglio 2021 di WE World Energy.
WE World Energy è il magazine internazionale sul mondo dell'energia pubblicato da Eni - diretto da Mario Sechi - che con il suo portato di esperienza e scientificità si è guadagnato una posizione di grande rilievo nel panorama internazionale dei media di settore.