AGI - Chissà se alla fine prevarranno i cori degli uni o quelli degli altri, God Save Thew Queen oppure Flower of Scoltand. Ma urleranno, stiamone certi, con tutta la cattiveria di cui sono capaci due tribù: una celtica purosangue, discendente dei Picti e dei Caledoni. Ne furono colpiti persino i Romani, dalla loro fantasia nel dipingersi la faccia prima della pugna, arte passata poi in tutti gli stadi del mondo.
L’altra più bastarda, discendente di Briganti e Cassivellauni vari, ma anche di Sassoni, Juti e Angli con quella goccia di sangue franco-normanno che ancora adesso ne determina la chioma platinata e la latente arroganza della posa.
No, la Brexit non è roba fresca, o almeno non lo è abbastanza per rendere lo scontro di domani tra Scozia e Inghilterra, seconda giornata del loro girone agli Europei, la resa dei conti tra Leave e Remain. Ma è peggio, perché a Londra c’è un premier che ha fantasticato a un certo punto addirittura di un ponte per unire la Scozia all’Irlanda del Nord, pur di tenere insieme un Regno sempre meno Unito. E che giusto l’altro giorno sfidava letteralmente il mondo intero in una guerra da operetta tutti chiamano “della salsiccia”, a dir quello che vale, per ribadire i propri diritti sulla terra irlandese. Altro che Arcoforte alla corte dei Plantageneti.
Biondo platinato com’è da vero Englishman (anche se c’è la complicità dell’antenato russo), Boris Johnson è l’idealtipo del nemico per lo scozzese medio.
Questi invece ha in Nicola dal cognome di Storione (i salmoni nel Tamigi non li vedono più da 150 anni, ai tempi di Wilson ne trovarono uno ma si era perso) la propria Giovanna d’Arco. Ragazza di carattere che, di come si fanno a fette gli inglesi, se ne intendeva non poco.
Finì male, la povera Giovanna, perché la perfidia sappiamo dove alligni. Fattasi vendere Giovanna, si fecero vendere la Scozia. All’inizio del Settecento toccò a Daniel Defoe, sommerso dai debiti, andar di casa in casa, di patrizio in patrizio a seminar mazzette per far dire di sì all’Unione con Londra. Fu forse grazie a quel meretricio che il creatore di Robinson Crusoe ebbe l’ispirazione per Moll Flanders.
Adesso Nicola la first minister guida la lenta ma inarrestabile carica per l’indipendenza. Umberto, ti ricordi di Braveheart? Non ci avevi capito nulla: si fa tutto all’incontrario, se si vuole spuntarla. Sennò finisci alla catalana. Calma e gesso, ragazzi, prima o poi ci si arriva, soprattutto se l’Inghilterra lascia l’Europa pensando di avere un Trump a Washington che le conceda una relazione speciale, e invece si ritrova un Biden irlandese che le dice di piantarla. È successo in Cornovaglia: chiedere per esserne informati.
Può una storia di separazioni così nette trovare nello sport l’unione e l’armonia? Ma ti pare: lo sport sarà anche fratellanza tra i popoli, ma il tifo è roba da plebei. Oggi, in ogni occasione possibile e immaginabile, i tifosi dell’Inghilterra, che poi sono quelli che negli anni ’70 del secolo scorso inventarono il nazional-fascismo della curva (cfr Nick Hornby, Febbre a 90°, edizioni Guanda 1997), intonano “Swing low, Sweet Chariot” incuranti del particolare che su tratti di uno spiritual dei neri d’America, gli stessi che i loro antenati avevano esportato a forza in Giamaica. E quegli altri, vestiti di blu, che gli rispondono gaglioffi e ormai europeisti convinti: “You can stick your fucking chariot in your arse”.
Please?
“Niente: Scotland the Brave. Brave come Braveheart”.
Ah, ecco.
È talmente sorda, antica e profonda questa rivalità che nemmeno lo spelling regge più. Si chiama Auld Enemy, l’inglese invasore, per lo scozzese che ne parla sì la lingua ma come idioma appreso, nonostante Conan Doyle. Sì, ma da quando?
Sinfonia gaelica
Da 150 anni fa, quando a Londra si pescava l’ultimo salmone del Tamigi. Era il 27 marzo 1871, e fu il primo incontro-scontro tra le rappresentanze. Attenzione, dirà l’esperto, quello non era mica calcio. Vero, la palla era ovale e questo fa pensare al rugby: indiscutibile. Ma si giocava in 20 contro 20, per cento minuti, con calci e botte da orbi. Una cosa molto diversa dal rugby; era uno sport che gli inglesi han dimenticato e gli scozzesi praticano con un loro campionato. Si chiama Calcio Gaelico, Gaelic Football. E adesso ha la palla rotonda per una inevitabile quanto darwiniana evoluzione della specie.
Ad ogni modo vinse la Scozia 4-1, con punteggio calcistico per l’appunto. In più gli scozzesi dimostrarono di aver imparato qualcosa, dai tempi della trasferta fraudolenta di Defoe. Nel senso che questa volta l’arbitro se lo erano portato da casa.
Seguì una seconda sfida, l’anno dopo. E si registrò la nascita della maglia nazionale inglese, ancor oggi bianca con croce rossa (sempre più piccola con il tempo) di San Giorgio. Gli scozzesi l’avevano marrone. Mica si vestivano a Piccadilly. Poi venne una terza, e fu finalmente calcio autentico e inoppugnabile. Pari a reti inviolate. Anche questa volta l’arbitro era scozzese.
Gli inglesi si presentano senza un allenatore: il ruolo di commissario tecnico lo ricopriva collettivamente un comitato. Stava già nascendo, anche se nessuno se ne rendeva conto, il Labour.
A un certo punto, era il 1953, si pensò ad una manifestazione calcistica, una coppa, per festeggiare tutti insieme Elisabetta la seconda, assurta allora allora al trono con il nome della mandante dell’esecuzione di Maria Stuarda. Ecco che salta fuori la Coronation Cup. Viene disputata in Scozia, dove Elisabetta la chiamano la prima perché quell’altra non è nemmeno riconosciuta. Insomma, una provocazione simile al viaggio a Sarajevo del Granduca Francesco Ferdinando.
Finì, dal punto di vista sportivo, in modo simile. Otto squadre, quattro inglesi e quattro scozzesi, a eliminazione diretta. In finale ci arrivarono il Celtic e gli Hibernians. Cioè cattolici di Glasgow contro quelli di Edimburgo. Che gusto.
Vinsero i primi, a gran scorno degli angli anglicani del Sud. La tifoseria vincente si autoproclamò immediatamente “campione dell’intera Gran Bretagna”, chiamando così, probabilmente, il bluff che stava dietro la bonomia apparente del torneo. Avessero vinto gli inglesi, puoi star sicuro, qualcuno lo avrebbe immediatamente proposto a Westminster e allora, nel nome della Sovrana appena incoronata, addio campionati separati e federazioni disgiunte.
E invece no: Kenny Dalgish è il primo scozzese pallone d’oro nel 1964 (all’epoca gli inglesi non avevano vinto nemmeno un Mondiale, e quanto a quello del ’66 viene in mente l’arbitro portato da casa dagli scozzesi). Nel decennio successivo cresce un’intera generazione di fenomeni, che solo i collezionisti di figurine italiani credono siano del Kent o dello Yorkshire. E a questo punto si alza dalla tribuna di Hampden Park il grido "Noi odiamo gli inglesi".
È il 1974, inizia una nuova era, in cui il nazionalismo di quelli che vivono sopra il Vallo viene contenuto, sostanzialmente, in un solo modo: proventi petroliferi e Unione Europea. Lo Scottish National Party si presenta comunque alle elezioni, e porta a casa 11 seggi.
Pochini, lì per lì, ma tre anni dopo ci fu Stirling Bridge, l’epica impresa di William Wallace, anche se il campo era quello di Wembley. Ne restò ben poco, alla fine, del terreno della battaglia. Anzi, non restò nemmeno zolla su zolla.
Due a uno per la Scozia, vittoria che vale l’Home Championship, come allora si chiamava quel torneo che metteva insieme le nazionali dei quattro regni e principati. Le tribù federate dei Caledoni e dei Picti, fischiato il novantesimo, si danno al più classico dei saccheggi: porte divelte, reti tagliate con il coltello a serramanico, piazze erbose portate a casa come souvenir.
E su tutto, un peana: “Dateci Westminster e vi ridiamo Wembley”. Gli inglesi, nel 1984, aboliscono l’Home Championship: hanno capito che aria tiri.
Da allora, e per sempre, in ogni torneo internazionale la parola d’ordine è “Tutti, ma non l’Inghilterra”. Il che è in fondo la radice dello scontro sulla Brexit. L’Europa conta, ma non è tutto. L’Europa è bella, ma ancor più bella è la splendida occasione per contarsi e, se possibile, separarsi.
Piuttosto che i Briganti, insomma, i Romani. Mancini, hai una tribù in più su cui contare.