“In 42 anni di carriera pensavo di aver visto tutto”. Chissà con quali parole avevano raccontato a Rick Pitino, leggenda tra i coach del basket americano universitario, la rivalità greca tra i verdi del Panathinaikos e i rossi dell’Olympiakos. La cosiddetta Mitéra ton machòn, la madre di tutte le disfide. Lui che, appena qualche mese fa, aveva accettato di guidare una delle più forti squadre europee, forse senza conoscere fino in fondo che cosa poteva succedere in quello che è davvero un tempio del basket, l’OAKA di Atene. Un palazzetto dove non c’è mai un posto vuoto, dove il caldo è asfissiante e il canto dei tifosi non si ferma mai. Eppure ieri, durante la semifinale di coppa, sono accaduti una serie di fatti, in sequenza, che poco forse hanno a che fare con quello che solitamente chiamiamo sport ma che rientra, senza sorprese, all’interno di una rivalità che esula da questi confini.
Ritiri, perizomi e acclamazioni
Mettiamo in fila i fatti. Le due squadre più forti del campionato greco scendono in campo per giocarsi l’accesso alla finale della Coppa nazionale. All’OAKA il rumore è assordante, i torsi dei tifosi sono nudi e la temperatura percepita fa quasi dimenticare di essere in inverno. È una corrida vera, senza esclusioni di colpi.
Il clima è teso, ma non è una novità. Ogni fischio dell’arbitro è contestato. Soprattutto dalla squadra ospite, l’Olympiakos. Il punteggio finale dopo due quarti racconta l’andamento della gara: Panathinaikos avanti 40-25. Poi, però, succede qualcosa di inaspettato. La squadra ospite ritarda il suo rientro in campo dagli spogliatoi. Ci sarebbero ancora due quarti da giocare e tutto è in bilico. Ma il presidente ha deciso che i suoi ragazzi su quel parquet non tornano. Prendono l’autobus e tornano a casa. Un gesto di protesta contro la terna arbitrale. Contro ogni buonsenso. Ma come detto, qui, lo sport, spesso, diventa pretesto per qualcosa di diverso.
Pitino, origine siciliane, è sgomento. Ha passato gli ultimi cinque minuti a guardare i suoi giocatori negli occhi. Quindici punti, in una partita come quella, sono pochissimi. Li invita a concentrarsi e a non abbassare la guardia. Tutto è ancora ribaltabile. Il basket è fatto così. Ma gli avversari non tornano. E il coach americano, che di derby ne ha vissuti parecchi dall’altra parte dell’oceano, non si preoccupa. Non può credere che dei professionisti gettino così la spugna. Poi anche lui si arrende ai fatti. Sconfitta a tavolino. C’è una finale da preparare.
Ed è allora che inizia un’altra partita. Quella che si gioca senza pallone, senza canestri, senza tabelloni. E senza regole. Il presidente del Panathinaikos, Giannakopoulos, non si lascia scappare un’occasione del genere: tra le mani, improvvisamente, spunta un perizoma. È rosso come il colore degli avversari. Come il colore della vergogna. Lo poggia sulla loro panchina vuota. Le foto fanno velocemente il giro del web. Quel ritiro, per lui, è una cosa da codardi, non da uomini, non da greci.
Per contestualizzare il personaggio: Giannakopulos è lo stesso Presidente che indossò la maglietta “Eurolega mafia” (Eurolega è l’equivalente della Champions League del calcio), sempre durante un derby, accusando arbitri e federazione delle peggiori cose e irrompendo nei loro spogliatoi. Oggi per il gesto sessista del perizoma si è scusato parlando a Sport 24 Grecia: “Un gesto dettato dall’entusiasmo. Mi scuso con il mondo del basket ma non con l’Olympiakos”. Non sia mai.
Su Twitter, poco tempo dopo, il social media manager del Pana ha rincarato la dose pubblicando una sorta di appello stile “Chi l’ha visto?” e commentando: “Li stiamo ancora cercando”.
La reazione rossa
I tifosi dell’Oympiakos non si sono sentiti colpiti nell’orgoglio. Anzi. Hanno atteso, al Pireo, i propri giocatori. Erano più di 4 mila a circondare l’autobus. Come se la loro squadra avesse vinto la più dura delle partite. Tra canti e urla, ha riecheggiato per ore una sola parola: “eroi”. Decidere di non scendere in campo non è stata un’azione vile ma l’atto più coraggioso che quegli eroi potessero fare. Ribellarsi agli arbitri, al sistema, al nemico. Allo sport, se necessario.
La rivalità eterna
Il basket ad Atene è una cosa seria. Se non ci fossero le squadre di Salonicco, si potrebbe quasi azzardare che in Grecia, la pallacanestro, è una questione tutta ateniese. Ci sono quasi venti squadre nelle leghe professionistiche intorno alla Capitale. Alcune, come l’Aek, di grande tradizione. Ma la sfida più accesa resta quella tra i benestanti, quelli dell’intellighenzia, i verdi, del Panathinaikos e i portuali popolani, la classe operaia, i rossi, dell’Olympiakos. Nel 2015, all’interno dell’OAKA, Vassilis Spanoulis, ex Pana, provò a rispondere ai fischi del pubblico che non gli aveva perdonato il passaggio ai rivali. Non fu una grande idea. Mise le mani sulle orecchie, chiedendo più rumore. Sul parquet arrivò di tutto. Oggetti piccoli e grandi. Tutta la squadra dell’Olympiakos fu costretta a scappare, chiudendosi nello spogliatoio, e aspettando di poter riprendere a giocare.
In quel caso la partita si concluse. Insomma, quello di ieri è l’ennesimo capitolo di una storia che negli anni ha visto succedersi grandi giocatori, grandi partite, grandi trionfi ma anche una sequela di cose che è impossibile annoverare all’interno della categoria sport.