AGI - Gianfelice Facchetti, figlio della bandiera neroazzurra Giacinto, che con Gigi Riva ha condiviso più di cento partite in azzurro e una grande amicizia e stima, ricorda all'AGI 'Rombo di Tuono' e il rapporto con il padre: “Non potrò mai dimenticare il suo affetto e il suo calore nell’esporsi in difesa di mio padre ai tempi dello scandalo di Calciopoli del 2006, in un periodo in cui era piuttosto bersagliato". Ai tempi Riva ricopriva il ruolo di Capo Delegazione della Nazionale Italiana, “lui era solito non esporsi mai nè usare parole di troppo, ma quella volta fece un gran rumore, fu il sostenitore più appassionato di mio padre". Con la maglia dell'Italia, Riva è stato l’attaccante più prolifico di sempre, con 35 gol segnati in 42 presenze.
Facchetti Jr ricorda quegli anni: “Insieme a mio papà, hanno vissuto in Nazionale il momento storico in cui il calcio si è legato alla società in una maniera irripetibile. Gli anni di grande fermento politico lo furono anche in ambito sportivo: l’Europeo del 68, il primo vinto dall’Italia, i Mondiali del 70 con Italia–Germania terminata 4-3, partita in cui Riva era stato tra i protagonisti, segnavano l’inizio di una nuova era nel calcio. Quella in cui anche le donne e i bambini diventavano spettatrici e frequentatrici degli stadi, in cui per la prima volta la messa in onda televisiva fu di sera, per via del jet leg col Messico, era tutto nuovo. E soprattutto fu prima volta in cui il tricolore veniva sdoganato dai retaggi storici del fascismo, che nessuno aveva il coraggio di mostrare fino a quel momento. In quella notte tanti italiani sentirono il bisogno di farlo con orgoglio, fuori dalle proprie finestre. Si racconta che in quella occasione, tanti italiani cercavano un modo per fabbricarlo in casa, con qualsiasi straccio, pur di mostrare vicinanza a quei colori e ai loro campioni”.
E parlando di Riva, non si può non rievocare quel calcio romantico, che non c'è più, ormai scalzato dal calcio "moderno", che ruota intorno al Dio Denaro. Gianfelice Facchetti parte proprio dalla Supercoppa italiana giocata in Arabia: "E' stato vergognoso assistere ad una semifinale tra Napoli e Fiorentina in uno stadio con 9000 spettatori che non sapevano nemmeno cosa stessero guardando (magari perché qualcuno ha pagato per loro il biglietto per entrare) e cori registrati, solo per denaro. Mi sembra uno scenario avvilente per il calcio italiano - confessa il figlio di Giacinto -. Ed è ancora più imbarazzante ricordare un mito assoluto del calcio, senza prevedere che questa commemorazione non è contemplata dalla cultura araba, e senza averne dunque il controllo, lasciando che questo momento venga ricoperto da fischi assordanti. Per giunta con un precedente avvenuto solo qualche settimana fa in occasione della morte di Backenbauer, fischiato allo stesso modo”, ricordato prima della semifinale di Supercoppa spagnola tra Real e Atletico Madrid. “Questo dilettantismo è inaccettabile - si sfoga Facchetti jr -. Così come lo è che nessuno metta la faccia chiedendo scusa e rivedendo le scelte adottate finora e cercare altre soluzioni per raggiungere gli stessi obbiettivi. Questo sarebbe stato un colpo di scena molto apprezzato. Se il minuto di silenzio per ricordare delle leggende deve diventare un teatrino penoso tra chi non rispetta questo momento, una sorta di drive in in cui si gioca a pallone, che si abolisca piuttosto, lasciamo stare le cose serie, mettiamole da un’altra parte”.
Proprio questo “sincronismo tra la finale di Supercoppa italiana e l’addio a Gigi Riva, racconta la distanza tra il calcio che abbiamo amato, e che dovrebbe fare dei passi indietro, e il calcio di oggi, governato da figure che c’entrano poco con lo sport e la passione". Facchetti ricorda il calcio di una volta partendo proprio dallo storico scudetto del Cagliari nella stagione 69-70, con la leggenda Gigi Riva in campo: "Una 'congiunzione astrale' da considerare. A quei tempi, i calciatori più rappresentativi della Nazionale erano considerati degli 'ambasciatori', come se fossero dei ministri, con un potere e una capacità di unire ed elevare il senso di appartenenza molto profonda di un popolo, molto meglio di chi aveva l’incarico istituzionale di farlo. Un momento unico e irripetibile in cui il calciatore apparteneva al mondo della gente comune, la incontrava per strada, ci condivideva tempo, scambiava parole, parlava lo stesso linguaggio. Oggi i calciatori vengono tenuti dentro delle bolle, il loro contatto con i tifosi è effimero, si consuma durante la partita e fuori da lì non esiste, è impossibile coltivarlo. Per osmosi e con il proprio esempio, i genitori trasmettono dei valori ai figli: nel mio caso sicuramente sono legati a quel tipo di sport, degli appassionati, della gente comune, che era patrimonio del calcio e che oggi si fa di tutto per disperderlo e disintegrarlo", conclude Facchetti.