AGI - Trentatré anni dopo la storia si ripete. Claudio Ranieri riporta in Serie A il Cagliari ripercorrendo passi che nessuno aveva mai cancellato. Nel 1990, già reduce da una promozione l’anno precedente, l’allenatore romano si era affacciato per la prima volta nel mondo del calcio che conta. Il Sant’Elia era servito come trampolino di lancio per una carriera infinita che lo avrebbe portato ad allenare squadre come Napoli, Fiorentina, Roma, Juventus, Valencia, Chelsea. Fino al capitolo Leicester, oggi ironicamente retrocesso, ma portato al trionfo in mezzo ai paperoni e ai giganti della Premier League.
Un calcio fatto di idee, lealtà e, anche, delusioni. Ma il ritorno in Sardegna, quest’inverno, è stato l’atto più coraggioso e altruista di Ranieri. Il calcio di oggi è senza bandiere, in panchina e in campo. I ricordi sbiadiscono in fretta e basta poco per smettere di venerare idoli e bandiere.
Ranieri è arrivato a Cagliari con un contratto di due anni e mezzo. I piedi ben saldi per terra e con un percorso chiaro per tornare in Serie A, fatto di progettualità e non (solo) di sentimentalismi: provarci subito, sapendo delle difficoltà; riprovarci l’anno dopo, stavolta partendo dall’estate; restare ancora, per finire il lavoro. Sono bastati 6 mesi per stracciare tutto e far tornare grande la squadra isolana. Sei mesi per ricordare a tutti cosa vuol dire, davvero, fare l’allenatore.
La vittoria all’ultimo respiro contro il Bari, se analizzata a fondo, è il manifesto del calcio di Claudio Ranieri. Un calcio fatto di rispetto per gli avversari, fiducia nei propri uomini, capacità di leggere le partite, trasmissione di valori. Un dramma, in quattro atti. Una gioia, infinita, che vale la pena ripercorrere.
Atto primo, incredulità
Il fermento scatta al momento della lettura delle formazioni ufficiali. Il Cagliari è arrivato a Bari con un unico risultato disponibile. La vittoria. Neanche il pareggio è contemplato dopo l’1-1 dell’andata. Serve solo segnare, esultare, ribaltare il pronostico. A giocarsi la A sono una città, con 58 mila persone stipate in uno stadio meraviglioso come il San Nicola, e un popolo intero, disperso nel mondo, attaccato a televisioni e radioline. Stanno per iniziare gli ultimi 90 minuti di una stagione interminabile e folle. 90 minuti per far scrivere ai giornalisti di un dramma o di una commedia, di un tragico o di un lieto fine.
E allora il tifoso, quello abituato a vestirsi da allenatore, non comprende. Il Cagliari deve vincere e si presenta in Puglia per non prenderle. Obert, Lella, Di Pardo. Pensa che sia uno scherzo. Esterni alti abituati a difendere, la fantasia di Mancosu e Viola in panchina accanto alle punte, Prelec e Pavoletti. Davanti la LuLa di Serie B, Luvumbo-Lapadula, a cui sembra però mancare supporto e fisico. Ranieri, “sempre sia lodato per carità, è rimbambito”. “Ha 71 anni, è vecchio”. “Non ha capito che dobbiamo darle, picchiare forte, assediare la porta avversaria”. Un tempo chiacchiere da bar, oggi messaggi su whatsapp.
Ma Ranieri ha negli occhi la gara dell’andata: i rossoblù si sono salvati solo grazie alla poca precisione dei galletti sotto porta e a un rigore sbagliato. Lo ha ricordato lui stesso alla fine del match. Per Ranieri, che ne ha viste tante, 90 minuti sono un’eternità. Il primo comandamento, allora, è non prenderle. Il secondo è equilibrio, raddoppi e ripartenze. Imprevedibilità. Se il Bari segna sei fregato. Due gol, in quello stadio, con 58 mila tifosi a cantare, non li fai. Perché alla fine, se non è mai troppo tardi per compiere un’impresa, è di certo quasi impossibile che un miracolo diventi realtà.
Atto secondo, fiducia
Bastano i primi 45 minuti per tornare a crederci. Il Cagliari è ordinato e gioca un ottimo primo tempo. Luvumbo gioca dietro l’unica punta, svaria e sguscia. Ranieri parla con tutti, dirige Makoumbou dalla panchina come fosse un direttore d’orchestra. Corre insieme a Zappa e Azzi sulle fasce. Si muove con Dossena per frenare lo spauracchio Cheddira. E la sua strategia funzionerebbe alla grande se non ci fosse un immenso Caprile a salvare il Bari su Di Pardo e Luvumbo. Ma è sempre 0-0 al duplice fischio dell’arbitro. Il Cagliari c’è, il gol no. “Ora, però, Ranieri non ha scelta. Deve mettere le punte, i giocatori d’esperienza”. C’è chi azzarda critiche ancora più feroci. “Ora basta, gli abbiamo regalato un tempo. Dentro tutti e giochiamocela con Prelec e Pavoletti”.
Ma l’allenatore romano non ha fretta. Sa che anche 45 minuti possono essere lunghissimi. È abituato a studiare bene la sua rosa anche se, stavolta, non sono giocatori che ha scelto durante l’estate. È entrato in corsa, più per amore che per la gloria, ignorando i rischi, i ricordi del passato, le difficoltà di una squadra ben lontana dalla vetta, in crisi di gioco e risultati. Questo non è il Cagliari di 33 anni fa. Non ci sono le mani di Ielpo, l’intesa di Festa e Firicano, l’estro di Cappioli e la vena realizzativa di Provitali, bomber di categoria come Lapadula. Ma la squadra è coesa, sa cosa deve fare e, soprattutto, sa che ci proverà fino alla fine. “Il più bel regalo di Natale fatto da Giulini ai tifosi”, scrivevano i giornali a dicembre. Ranieri conosce Cagliari, i suoi tifosi, il loro orgoglio. E come a dicembre, anche all’intervallo dell’ultima gara della stagione, sembra chiedere loro fiducia.
Atto terzo, disperazione
Bari come Venezia. Il Cagliari non segna e i fantasmi della passata stagione, quando sarebbe servito un gol per restare in Serie A, riaffiorano. Ranieri è lì ma non cede nelle sue convinzioni. Scatta l’ora di gioco e in campo ci sono ancora gli stessi. “Forse ha dimenticato l’orologio negli spogliatoi”. “Diteglielo che quest’anno i cambi sono 5”. La tensione è altissima in chat, meno in panchina. Ma il segreto sembra essere quello. L’orologio, ora, è bene non guardarlo. Serve lucidità, analisi. E anche un pizzico di fortuna. Il Bari non punisce, soprattutto con Ricci, e al contrario degli avversari l’orologio lo guarda eccome. Rallenta il gioco, perde tempo, protesta.
Ranieri i primi cambi li fa poco prima dello scoccare dei 70 minuti di gioco. Lui lo sa, venti minuti bastano per provarci, per riuscire nell’impresa. Mette dentro Mancosu e Prelec. Lo sloveno è un oggetto misterioso, incompiuto. Ma ha scavalcato nelle gerarchie il bomber Pavoletti che resta in panchina. Gli allenatori da tastiera alzano la voce, chiedono spiegazioni per quelle scelte. Domande a cui nessuno può dare risposte. Anche i più fedeli supporter di Ranieri però hanno più di un dubbio.
A Bari inizia a piovere, fortissimo. Il campo diventa pesante. Sembra tutto a sfavore di chi deve attaccare e segnare. Le telecamere inquadrano i tifosi baresi sugli spalti che esultano, sorridono, intonano “Serie A”. A un passo dal paradiso anche la pioggia ha un buon sapore.
Atto quarto, le lacrime.
Sono tutti zuppi fino al midollo. È iniziato il recupero. Pavoletti è entrato al 89’. “Troppo tardi”, “Non riusciamo a fare un cross decente”, “io lo sapevo che dovevamo giocare con 3 punte”. “Ranieri è bravo ma oggi ha sbagliato tutto”. Il Bari ha anche colpito un palo che, a guardarlo bene, non ha ancora smesso di tremare. I minuti di recupero sono 6. C’è abbastanza tempo per riempire l’area, mettere paura. Ranieri incita, applaude, spinge tutti in avanti. Poi all’improvviso Zappa crossa, Pavoletti anticipa
Il suo marcatore e porta il Cagliari in Serie A. Ora sì che non c’è più tempo. Lo stadio ammutolisce, la pioggia continua a cadere. E rende tutto più freddo, grigio. L’arbitro Guida, come a risvegliare tutti da un sogno o da un incubo, fischia 3 volte e tutte le telecamere corrono a immortalare lui, Claudio Ranieri, che abbraccia tutti e piange. Piange a 71 anni suonati. Piange e si commuove, più della prima grande impresa della sua vita, 33 anni prima. Più di quando ha condotto il Leicester alla vittoria della Premier League, il “miracolo”, quello vero, della sua carriera. Anche le chat esplodono. Nessuno si ricorda più della sua età, delle sue scelte iniziali, dei suoi cambi ‘ritardati’.
Mister Ranieri, in fondo, ha sempre avuto ragione, anche quando non ha vinto. Anche quando è stato esonerato. Anche perché nonostante la gioia, i sorrisi, i pianti, non ha mai perso di vista ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Al San Nicola, nel silenzio di chi ha ceduto alla delusione, sente i tifosi del Cagliari che dileggiano gli avversari. “Serie B”, urlano. Li raggiunge, li zittisce, invita ad applaudire un avversario che ha perso per questione di centimetri, dettagli, minuti. Che soffre per la crudeltà di uno sport che non fa prigionieri.
Persino il tifoso a casa, allora, cambia atteggiamento. Le parolacce finiscono lì. I cori sono per i propri colori, la festa è per i propri beniamini, le armi sono rese agli avversari. Come Achille piangente che, alla fine, restituisce il corpo di Ettore, Ranieri invita tutti a sospendere la guerra. Il calcio è in fondo una battaglia, a volte epica, che termina dopo 90, lunghissimi, minuti di gioco.
E ora cosa farà Claudio Ranieri?
La risposta sembra scontata. A Cagliari lo terrebbero a vita, gli farebbero una statua. Ma servono le giuste condizioni, la giusta intesa. L’allenatore romano lo sottolinea ai microfoni, dopo la partita, felice ma lucido: “Già alcune volte sono stato poco furbo, come con la Roma e il Leicester, dove sono rimasto anche se le squadre non erano più all’altezza”. Insomma, Ranieri è arrivato a Cagliari e ha mantenuto la promessa di riportarlo nell’élite del calcio italiano. Ora tocca alla società sarda costruire una squadra che si meriti di avere in panchina un signore, un allenatore e un uomo, come Claudio Ranieri.