L utto nel mondo del calcio. Sinisa Mihajlovic, fino al 6 settembre scorso allenatore del Bologna, è morto in una clinica di Roma. Aveva 53 anni. Il 13 luglio del 2019 Mihajlovic annunciò in conferenza stampa di essere malato di leucemia mieloide acuta e di doversi sottoporre a cure immediate. Il 26 marzo scorso, sempre in conferenza stampa, disse che si sarebbe dovuto sottoporre a un nuovo ciclo di cure per un ritorno della malattia.
Il gigante dagli occhi da bambino
Aveva affrontato la malattia da guerriero, come tutta la sua vita. Sinisa è stato un ossimoro nella storia del calcio italiano ed europeo. Fisico possente con occhi da bambino. Capace di fare del calcio di punizione una sentenza (è il giocatore ad averne trasformati di più nel campionato italiano, 28) e, da allenatore, di rivestire in pieno i panni del sergente di ferro, è stato oggetto di momenti di grandissima commozione sua e di chi gli stava di fronte. Come quando, nel 2019, annunciò pubblicamente di essere affetto da leucemia non trattenendo le lacrime e dichiarando: “Questa è la mia battaglia più difficile, devo vincerla per me e per chi mi vuole bene”. E si sa, l’esternare i propri sentimenti specie quando si è fuori dal rettangolo di gioco non è cosa frequente nel mondo del calcio.
Un affetto umano che i suoi giocatori del Bologna pochi mesi dopo, gli restituirono in forma di una visita inattesa sotto le finestre dell’Ospedale Sant’Orsola, dove Sinisa era ricoverato, come un gruppo di tifosi qualunque, poche ore dopo il successo in rimonta sul Brescia. Visita davanti alla quale il tecnico si commosse non prima di rientrare nel ruolo e dire ai suoi giocatori: venite su che riguardiamo la partita e capiamo cosa non ha funzionato.
Una visita che si è ripetuta nell’aprile di quest’anno: quando i giocatori del Bologna (squadra che lo ha esonerato a settembre) gli tributarono un corso classico per i nostri giorni: “Sinisa on fire” sulla falsariga del coro che ha celebrato Stefano Pioli come allenatore campione d’Italia. La perla della sua carriera da giocatore è il successo in Coppa Campioni con l’amata Stella Rossa di Belgrado nel 1991: un anno prima del crollo della Jugoslavia. Sinisa segnò il quarto rigore della sequenza che al San Nicola di Bari consegnò la Coppa ai serbi. In quello stadio c’era anche un personaggio che in qualche modo ha segnato però la vita del Sinisa “duro”, in perenne difesa del suo Paese anche durante e dopo l’ultima guerra del Balcani.
Il personaggio era Zeliko Raznatovic, meglio noto come il comandante Arkan, leader del gruppo paramilitare delle Tigri che all’epoca, era il capo degli ultras delle Stella Rossa.
Arkan si rese responsabile, durante la guerra e l’assedio di Sarajevo, di crimini contro l’umanità e quando, anni dopo, fu assassinato nella hall di un hotel, gli dedicò un necrologio affettuoso. Fatto che gli scatenò addosso una valanga di critiche cui il “duro” Mihajolovic rispose sempre in modo assai fermo e rivendicando la dignità non solo di Arkan ma pure di Mladic e Milosevic, altri protagonisti serbi della carneficina delle ex Jugoslavia.
In Italia il Sinisa allenatore ha vinto tre edizioni della Supercoppa italiana (due con la Lazio e una con l’Inter) due scudetti (uno memorabile con la Lazio nel 2000 sul campo e uno, quello del 2006, aggiudicato all’Inter dopo i fatti di Calciopoli), quattro Coppe Italia (due con la Lazio e due con l’Inter) una Coppa delle Coppe (con la Lazio nel ’99) e una Supercoppa europa nello stesso anno sempre con i biancocelesti. Ha allenato anche la Samp, la Fiorentina, la nazionale serba, il Toro e il Milan prima di tornare a Bologna.