P er Toronto, quella che inizia venerdì, è la prima finale NBA della sua storia. Un traguardo che interrompe, dopo 8 anni, nella Eastern Conference, il regno di Miami prima e Cleveland dopo. Otto anni contraddistinti dalla presenza costante di LeBron James passato ormai, con poca fortuna, almeno per questa stagione, a Los Angeles, sponda Lakers. Golden State, invece, è attesa dalla quinta finale di fila (era dai tempi dei Boston Celtics di Bill Russell, negli anni ’60, che non accadeva) ed è alla ricerca del terzo titolo consecutivo.
Un’avventura lunga 24 anni
Il 4 novembre del 1993 la NBA istituisce la sua 28esima franchigia (oggi sono 30). Il 15 maggio del 1994 viene reso noto ufficialmente il suo nome completo: Toronto Raptors. Non è un caso. A Hollywood era appena uscito quello che diventerà uno dei film più amati degli anni ’90: Jurassic Park. Non è difficile intuire quanto quella pellicola abbia influenzato quella scelta. Il dinosauro rosso che palleggia, stampato sulle canotta viola, diventrerà presto un oggetto di culto talmente iconico da superare ogni giudizio di valore estetico.
Ad essere precisi, quella non è l’unica squadra nata, nello stesso anno, al di fuori dei confini degli Stati Uniti. Anche a Vancouver, nello stesso progetto di espansione, arriva il basket della NBA. Ma i destini sono diversi. I Grizzlies rimangono in Canada solo fino al 2001 quando il presidente Michael Heisley troverà una nuova casa a Memphis. Ma Toronto non è Vancouver. Parliamo di una delle città più popolate del Nord America e, pur rimanendo orgogliosamente canadese, i punti di contatto con le grandi metropoli statunitensi non mancano di certo. Soprattutto se si prendono in esame città profondamente diverse come Quebec City, Montreal, Ottawa o la stessa Vancouver.
Nel 1995 arriva il primo draft. Toronto ha la scelta numero 7. In Canada arriva una giovane guardia che ha fatto il college ad Arizona. Si chiama Damon Stoudamire. Dicono che l’abbia scelto direttamente Isiah Thomas, leggenda sul parquet e uomo di spicco della dirigenza dei Raptors. In quell’anno, inoltre, alle due neonate franchigie viene data la possibilità di un’expansion draft per poter completare la squadra.
Così a Toronto arriva anche un italiano. Si chiama Vincenzo Esposito, ha 26 anni, e da 11 gioca a basket ad altissimo livello. Non solo, vince scudetti e arriva in fondo alle competizioni europee più importanti. Come nel 1989 quando, con la maglia di Caserta, con cui ha esordito a 15 anni, si arrende solo al Real Madrid di Drazen Petrovic. Per i Raptors il suo ingaggio è importante per due motivi: è un tiratore incredibile dotato di una velocità d’esecuzione fuori dalla norma e una capacità di lettura del gioco con pochi eguali; ma è anche italiano e a Toronto gli italiani sono tanti. C’è il quartiere di Little Italy, come in tante altre città, ma anche altri piccoli sobborghi. Uno dei più famosi si chiama Corso Italia.
Esposito, che ora allena Brescia, resta solo un anno in Canada ma quell’esperienza sarà fondamentale per aprire la strada a chi, dall’Europa, verrà dopo. Quell’anno non sarà fortunato neanche per la squadra che chiude con un record molto negativo (21-61). Ma il 24 marzo del 1986, i Raptors sono capaci di un grande acuto: infliggono una delle 9 sconfitte stagionali a Chicago. Sì, i Chicago Bulls di Micheal Jordan.
Nel 1997 a Toronto arriva un giovanissimo Tracy McGrady. Non ha fatto il college e approda in NBA direttamente dall’high school. Non è una cosa così strana, in NBA. Si tratta di uno dei talenti più puri della sua generazione ma farà vedere le cose migliori solo quando lascerà il Canada. A Orlando prima e a Houston dopo. Ai Raptors nel frattempo arriva anche Vince Carter, suo cugino di terzo grado. Scelto proprio dai Golden State Warriors nel 1998, venne scambiato con Antawn Jamison, suo compagno di spogliatoio negli anni del college, a North Carolina. A Toronto, non sono molti a ricordarlo, c’è anche un altro giocatore, più anziano, tiratore sopraffino, giunto ormai alla fine della sua carriera. Si chiama Dell Curry ed è il papà di Steph Curry, stella dei Warriors.
Nel 2000 arrivano i primi playoff anche grazie a un centro di livello come Antonio Davis, arrivato da Indiana. Finisce male con New York che vince agevolmente la serie. La convivenza tra Carter e McGrady è difficile e a partire in cerca di miglior fortuna sarà proprio quest’ultimo. La storia è un po’ simile a quella che ha riguardato Oklahoma qualche anno fa quando Westbrook, Durant e Harden si trovarono a vestire la stessa maglia e a essere, allo stesso tempo, ingombranti l’uno per l’altro.
L’anno dopo arriva la rivincita. Toronto batte New York ma si arrende nel turno successivo, in gara 7, a Philadelphia. E proprio Vince Carter a sbagliare il canestro sulla sirena che avrebbe potuto cambiare il destino della franchigia. Nel 2003, invece, è Detroit a fermare la corsa dei Raptors in post-season.
Gli anni successivi sono fatti di cocenti sconfitte, scelte complicate al draft e partenze dolorose. Nel 2003, ad esempio, arriva Chris Bosh, un top player che accende gli entusiasmi dei tifosi. Ma con lui i Raptors non riusciranno a fare il salto di qualità nonostante i suoi numeri e la sua leadership. Anzi, i tifosi saranno costretti a vederlo vincere a Miami quando, nel 2010, dopo 7 anni in Canada, accetterà di diventare uno dei tre violini del trio d’archi completato da LeBron James e Dwayne Wade. Nel 2004, intanto, aveva fatto le valigie anche Vince Carter con destinazione New Jersey.
Il 15 gennaio del 2006 il pubblico di Toronto assiste a una delle performance più incredibili della storia della NBA. Kobe Bryant, con la maglia dei Los Angeles Lakers, segna 81 punti. La seconda performance di sempre dopo i 100 segnati da Wilt Chamberlain nel 1962, con la maglia di Philadelphia. Una squadra i cui giocatori avrebbero iniziato a chiamarsi 76ers solo più tardi e che allora aveva un altro nome. I Philadelphia “Warriors”.
In quello stesso anno a Toronto accade anche un’altra cosa. I Raptors vincono la draft lottery. Non è una cosa da poco. Hanno cioè la possibilità di scegliere la prima scelta assoluta. Ma non è un anno particolarmente ricco di nomi, nonostante il talento ci sia. Non c’è in giro un giocatore capace di cambiare il corso della storia di una franchigia. Tra i primi nomi che si fanno ci sono quelli di LaMarcus Aldrige, probabilmente il più forte del gruppo, e altri discreti giocatori: Brandon Roy, Rudy Gay, J.J. Redick, Rajon Rondo.
Ma la scelta del nuovo general manager, Brian Colangelo, cade su un giovane italiano, nato a Roma. Si chiama Andrea Bargnani, ha 21 anni, e gioca a Treviso con la maglia della Benetton. Bargnani diventa il primo giocatore europeo, il sesto non americano, il secondo a non aver mai giocato in un college o in una high school statunitense, a ricoprire la scelta numero uno della lotteria. L’altro era stato, quattro anni prima, il cinese Yao Ming. In quel draft compare un altro nome che a Toronto hanno imparato ad amare: i Grizzlies scelgono Kyle Lowry, oggi il playmaker titolare, e il leader emotivo, dei Raptors.
Nonostante delle ottime stagioni in Canada, Bargnani non diventerà mai un all-star NBA capace di cambiare i destini della squadra. La convivenza con Bosh non è facilissima e nel 2007 arriva la sconfitta al primo turno dei playoff. Non è facile da digerire se i vincitori sono i Nets di Vince Carter.
Nel 2009 i Raptors firmano DeMar DeRozan, nona scelta al draft, che diventa il punto di riferimento della squadra dopo la partenza di Bosh per la Florida. Quattro anni dopo Colangelo viene sostituito da Masai Ujiri che, pochissimo tempo dopo, si libera di Bargnani mandandolo a giocare a New York. E l’inizio di una nuova fase che vedrà Toronto crescere. Non è un caso che riesca a qualificarsi, tutti gli anni, ai playoff. Ma l’ostacolo più grande diventa insormontabile. Cleveland è troppo forte per quei Raptors e LeBron James resta il vero dominatore della Eastern Conference.
Poi, nel 2018, cambiano tutte le carte in tavola. In estate King James si trasferisce in California mentre Kawhi Leonard, una delle stelle della NBA, entra in conflitto con la dirigenza dei San Antonio Spurs e con l’allenatore, Gregg Popovich. A Toronto decidono per l’all in, subito e immediato. Spediscono in Texas l’amato DeRozan per Leonard e, pochi mesi dopo, convincono i Grizzlies a scambiare Valanciunas, lungo lituano, con Marc Gasol, l’uomo di esperienza sotto canestro che mancava a coach Nurse. I contratti sono in scadenza, l’azzardo è notevole. L’obiettivo è quello di arrivare in fondo per prendersi il trono della Eastern Conference e per giocarsi fino alla fine la prima finale NBA della propria storia. Una sceneggiatura, iniziata ventiquattro anni fa, che attende ora di scoprire il suo ultimo capitolo. Quello più importante di tutti.