AGI - Sono i Santi Francesi, come ampiamente pronosticabile, ad aggiudicarsi l’edizione 2022 di X Factor, una vittoria tanto scontata quanto, lo sappiamo (certamente lo sapranno anche loro), potenzialmente inutile. Questo perché l’impatto di X Factor sulla carriera di chi vince ormai è ben noto, potrebbe valere tutto come non valere niente; in sintesi: il lavoro per i Santi Francesi, così come per tutti i concorrenti in gara, comincia adesso, con un singolo in mano che ha goduto di un lancio di tutto rispetto. Nulla di più, questo è bene che sia chiaro, da domani non ci saranno più riflettori puntati, giovedì sera da protagonista, una macchina produttiva al proprio servizio, giusto un pizzico di popolarità, da lavorare con delicatezza; d’altra parte quella dei Maneskin che si classificano secondi alle spalle dell’ectoplasmatico Lorenzo Licitra è ormai storia vecchia e solo la più eclatante tra le tante che la lunga storia di questo show ha da raccontare.
Una storia lunga che però può certamente aggrapparsi a punti fermi per rilanciarsi ancora in termini di vitalità; punti di share per esempio, 16 in più a quanto pare rispetto alla scorsa stagione quando però, bisogna dirlo, il format risultava davvero morente, a causa, soprattutto, di una giuria quasi del tutto sbagliata e di un conduttore, Ludovico Tersigni, attore sconosciuto agli over 25, che non è stato nemmeno lontanamente in grado di sostituire degnamente Alessandro Cattelan, che lasciava il timone dopo dieci edizioni. Allora rivoluzione: alla conduzione viene chiamata Francesca Michielin, una di casa, vincitrice del talent esattamente dieci anni fa e una delle poche a farcela davvero ai più alti livelli, la prova vivente che partecipare a X Factor può davvero dare una possibilità, basta mettere a frutto con serietà il proprio talento facendo le scelte più azzeccate e lavorando sodo; e basterebbe questo affinché la scelta risultasse corretta.
Ma la verità è che la Michielin è andata decisamente oltre, ha aperto ad una nuova prospettiva per quel che riguarda la conduzione del format, posizionandosi totalmente dalla parte dei ragazzi in gara, probabilmente memore della propria esperienza, e spostando in quel senso la narrazione; sarà anche per questo che mai come quest’anno al centro della scena ci sono finiti i concorrenti e anche questa scelta, consapevole o no, è stata azzardata ma azzeccata. Capitolo a parte la giuria, che è da sempre la vera anima dello show in un format che si basa essenzialmente su un ping pong tra palco e cattedra, chiaro che se su quelle quattro sedie non c’è nessuno che sappia eseguire giocate interessanti, che faccia succedere qualcosa, il ritmo rischia di afflosciarsi miseramente, così come successo nelle ultime edizioni. E allora rivoluzione anche su quel fronte, una rivoluzione che parte dal ritorno dopo quattro anni di Fedez, che con i suoi 14 milioni e mezzo di follower (solo su Instagram) rappresenta quasi un media a sé, importante per uno show che vive molto anche come fenomeno social, ma soprattutto che rappresenta idealmente un ritorno a quell’X Factor che ha tanto appassionato in passato; o almeno così sarebbe dovuto essere, specie considerato anche il coinvolgimento di Dargen D’Amico, figura ormai storica della scena rap old school italiana e da anni suo strettissimo collaboratore e amico.
Così ciò che tutti si immaginavano sei settimane fa, alla vigilia del primo live, è che Fedez potesse fare un po' da trascinatore e invece, sarà stata una strategia di comunicazione sfuggita di mano, ma la verità è che al tavolo a farla da padrone, immerso in quegli abiti fortemente sgargianti e forte della propria presenza naif, è stato proprio D’Amico, che durante questi sette live si è molto concentrato nel punzecchiare a ripetizione e senza nemmeno nasconderlo troppo l’amico influencer riuscendo, come non vedevamo da molto tempo, a creare interesse. Le altre due novità al tavolo dei giudici sono state Ambra e Rkomi; la prima ha portato un po' di vivacità in termini di femminilità ma, soprattutto, di tempi televisivi, quella che poteva rappresentare la sua disgrazia (se così vogliamo chiamarla) ovvero il fatto che i suoi Tropea, che non erano all’inizio entusiasti di essere finiti nel suo team, sono stati protagonisti di tutti i ballottaggi della fase live, è stata in realtà la sua fortuna, mettendola al centro di una scena che non riusciva a prendersi in nessun modo. Rkomi ha portato a casa l’edizione a fulminee vampate di trama, dai battibecchi con Fedez alla presunta liaison con Beatrice Quinta e quel petto nudo esposto ogniqualvolta era possibile farlo. Scelte tutte in modo diverso positive, se forse è mancata la voce più o meno seria e più o meno inattaccabile, parliamo di figure come Morgan, Manuel Agnelli o Elio, se non sono state molte le discussioni al tavolo riguardanti semplicemente la musica, dall’altra questa nuova giuria ha macinato trama, non si è risparmiata in attacchi e giudizi sprezzanti, che poi è il senso del format, altrimenti X Factor diventa una versione diluita e pop di Sanremo.
Ma X Factor non è Sanremo chiaramente, e non è nemmeno Amici, unico competitor rimasto in Italia, più nazionalpopolare, caciarone e televisivo, una differenza che diventa evidente pensando al cast di concorrenti scelti, ed è questo che fa di X Factor ancora oggi il principale talent musicale italiano: la credibilità, che poi si riflette sulla discografia. X Factor è sempre riuscito a fare in modo che il pubblico a casa non percepisse mai i concorrenti come personaggi televisivi, andando a pescare a piene mani nel circuito indipendente, artisti già fatti, consolidati, presenti su Spotify, conosciuti nell’ambiente e sul punto di esplodere; niente figurine senza cognome. Sono questi i casi, per esempio quest’anno, di Dadà, di Beatrice Quinta, dei Tropea, di Lucrezia e dei Santi Francesi; questo perché le favole piacciono a tutti, pensare che dalla propria cameretta si possa arrivare chissà dove risulta confortante al pubblico, ma anche pericolosamente fuorviante, perché fare musica è un mestiere serio e serve professionalità, quella professionalità che X Factor ha scelto di raccontare e che parrebbe appassionare ugualmente.
Un’edizione che chiude dunque con un “+” davanti, il che fa già notizia, considerate le voci che si rincorrevano ormai già dalla scorsa stagione riguardo il contratto tra Fremantle, società che produce lo show, e Sky in scadenza, e di un clamoroso ritorno a RaiDue, rete dove ha debuttato il format nel 2008 ma che non è mai riuscita a farlo decollare (così com’è successo con il defunto The Voice). Poco prima dell’annuncio dei Santi Francesi come vincitori di questa sedicesima edizione, Francesca Michielin ha ufficialmente aperto le selezioni per la diciassettesima, il che vuol dire che la contrattazione si è felicemente risolta. Quel che è certo a questo punto è che se quest’anno le numerose novità e scelte azzeccate hanno dato nuova linfa vitale allo show, è indubbio che dopo sedici anni il format risulta decisamente invecchiato e la soluzione non può passare solo dall’annullamento delle categorie, raccontato come se fossero stati bruciati i reggiseni in piazza, né con una serie di puntate a tema. Potrebbe piuttosto essere un’idea limitare le messe in scena, non far passare dei ragazzi comunque esordienti per qualcosa che non sono; nonostante, bisogna dirlo, il lavoro del direttore artistico Laccio sia inoppugnabile, forse mostrarli in una veste più garage, più spoglia, per far venire fuori le reali qualità, potrebbe risultare più autentico e interessante; d’altra parte con una costruzione così imponente, quasi hollywoodiana, alle spalle, qualsiasi decente frequentatore di karaoke, si trasforma in una superstar, ma poi il pubblico rischia di non credere a ciò che sta guardando. Sarebbe opportuno, per esempio, in fase di selezione, tornare a quei no convinti, perché no?, anche umilianti; sarebbe opportuno smetterla di sperticarsi in complimentoni esagerati per ragazzi dei quali con ogni probabilità dal quarto d’ora successivo non sentiremo mai più parlare. Serve insomma che la narrazione diventi più dinamica e che, soprattutto, venga rimesso al centro quel linguaggio schietto, politicamente scorretto, che ha fatto la fortuna del format, senza quel buonismo a tutti i costi che rende inutile in questa, appunto, partita di ping pong, scodellare la pallina dall’altra parte.