AGI - Lisbona, Barcellona, Parigi, Amsterdam, Lugano, Londra, Milano e Berlino, sono queste le tappe di “568”, ultimo spettacolo di Luca Ravenna. Il largo pubblico lo ha conosciuto come uno dei volti della prima e fortunatissima stagione di “LoL”, su Amazon Prime Video, sono moltissimi anche quelli che si sono affezionati a “Cashmere”, il podcast, uno dei più seguiti del palinsesto italiano, che conduce in compagnia dell’amico e collega Edoardo Ferrario e disponibile su YouTube.
In realtà il monologhista milanese (ma di adozione romana) è uno dei massimi esponenti della scuola italiana della stand up comedy, disciplina in costante ascesa (era ora) anche nel nostro paese. Una disciplina che torna a dare spessore alla comicità italiana, affogata nei tormentoni di Zelig, stordita dalla necessità di flusso della tv, un mezzo che è evidente abbia perso il contatto con la satira, provando ad imporre un senso dell’umorismo futile e innocuo, popolare e totalmente non disturbante.
In nostro soccorso è arrivata fortunatamente la rete, che si è fatta zona franca per un’intera generazione di stand up comedian che hanno trovato in questa forma d’arte del tutto intellettuale non solo un semplice canale espressivo ma una vera e propria ragion d’essere, rappresentando oggi, di fatto, lo specchio più autentico nel quale permetterci di specchiarci come uomini e cittadini.
Inutile girarci intorno, lo spettacolo di Luca Ravenna mantiene tutte le promesse fatte ai fan attraverso i video stravisualizzati su YouTube: fa molto molto ridere. Ravenna ridicolizza e al tempo stesso celebra la sua (e naturalmente anche nostra) medietà, un caleidoscopio comico attraverso il quale osservare la nostra sempre più bizzarra esistenza; e riderne forte.
La stand up è quasi esplosa in Italia negli ultimi anni, tu infatti dici sempre che voi comici siete “un po' famosi”. Quali sono i punti di forza di questa disciplina?
"Il punto di forza, quello che secondo me anche il pubblico riconosce ai monologhisti (che poi è il nome vero), è il punto di vista. Nel senso che, dopo anni che la comicità dal vivo era molto legata alla maschera teatrale o del cabaret, che fa parte della nostra cultura, della nostra tradizione, col passare del tempo è subentrato un interesse maggiore per un punto di vista personale, anziché per una maschera che magari incarna in maniera surreale un difetto, un pregio, una caratteristica comica delle persone"
Esattamente come successo in diversi ambiti, internet ha cambiato tutto, no?
"Internet si pensava avrebbe potuto uccidere il live e invece gli ha dato nuova linfa, perché fa da vetrina e perché penso che alla fine mancando tanti spazi sociali per la condivisione che non siano legati solo al cibo e al bere, allo stadio o alla musica, c’è voglia di andare a farsi due risate"
Sono sempre stato convinto che il senso dell’umorismo, che è la vostra materia, secondo me più della risata in sé, sia un ottimo termometro per misurare le persone. Allora invece di chiederti come stai tu, ti chiedo come stanno gli italiani?
"Non ne ho idea, non avrei mai la pretesa di saperlo davvero, anche perché io ho la fortuna di incontrare il meglio di ogni città, cioè ragazze e ragazzi dai 20 ai 40, con vette di 14/15 e 50, quindi vedo il meglio, moltissimi studenti universitari, le cosiddette vere risorse, quindi non penso che si stia male. Sto girando anche all’estero, uno pensa sempre quanto è figa l’Olanda, quanto è bello il Portogallo, la Spagna è una bomba, è tutto stupendo, ma la qualità della vita che c’è qua è proprio alta. Io penso sempre a quante volte paghi le tasse e a quanti caffè bevi ogni giorno, è vero che andrebbe fatta meglio la prima, però quante volte fai la seconda determina un po' di più la tua giornata; non starei sempre a dire che all’estero è meglio, perché non lo è neanche un po'. Ci sono delle cose belle da rubacchiare, ma io non ho una visione così negativa, soprattutto del pubblico, che penso sempre sia più intelligente di noi"
Un’altra cosa che chi ti segue ti sente dire spesso a “Cashmere” riguarda il falso mito che in Italia ci sono cose che i comici non possono dire…
Si può dire quello che si vuole, è un paese che, prendendo esempio dai politici, è sempre una battuta. Se parti da quello, figurati per un comico. Diverso il discorso per quanto riguarda i social, specialmente Twitter, ma perché è un media differente, cambia il contesto.
Hai fatto un fortunatissimo tour all’estero, voi monologhisti aspirate ad un mercato più grande?
"Si, l’inglese è il campionato vero, perché è la lingua più parlata nel mondo della comicità, in India per esempio c’è un mercato di stand up enorme, gigantesco, ma che è comprensibile per noi grazie all’inglese. La sfida c’è, anche se ci vuole un po' di tempo, devi vivere un posto per capire come si scherza, è un percorso faticoso, difficile, ma si può fare senza problemi"
Quando hai capito che la stand up anche in Italia ha assunto un ruolo ben preciso?
"Diciamo che aldilà dell’inizio, quando c’era la falange avanguardista di Satiriasi, che, com’è giusto che sia per qualsiasi movimento, era da duri e puri, c’è bisogno dopo che si faccia un passaggio più pop; in questo senso Edoardo (Ferrario) ha rappresentato qualcosa di più pop. Poi siamo arrivati io, Michela, Stefano Rapone e altri; io mi rendo conto che sia una nicchia in espansione, però mi accorgo che funziona nel momento in cui comici che facevano grande cabaret si convertono alla stand up; in alcuni casi è puro marketing, in altri è una volontà di cambiare stile, raccontarsi in maniera diversa, allora è figo. Siccome l’ho visto succedere, allora dico “adesso va”. Poi ormai anche i locali piccoli vogliono fare la serata, anche il baretto, quando io ho iniziato otto anni fa (ma sembrano venti) nessun posto ti dava disponibilità, erano tutti molto guardinghi"
Vi siete moltiplicati come il padel…
"Per il teatro è figo farlo, perché è scarno come spettacolo, magari poi mette gli stessi prezzi come se fosse una compagnia di venti persone e questa è una battaglia mia e di Edo. Una roba orribile che succede da noi è che da un lato c’è il cabaret, dall’altro il teatro di prosa, che in Italia annoia gli spettatori; noi non abbiamo produzioni off, una cultura italiana contemporanea, abbiamo solo i classici, Shakespeare, Pirandello, la tradizione regionale…che è tutto validissimo, però se tutte le città del mondo hanno una tradizione off figa, perché noi no? Poi tra l’altro da lì nascono i migliori film, le migliori serie…non è un caso se la nostra migliore serie comica in assoluto sia un libro ripiegato su se stesso nel prendere in giro la tv, perché la conosce come materia, non è un caso".
Visto che parliamo di “Boris” ti chiedo un ricordo su Mattia Torre, del quale sei stato studente e collaboratore…
"Si, è stato un mio professore al Centro Sperimentale, facevo sceneggiatura, in un momento in cui avevo due settimane libere ho chiamato Mattia e gli ho detto “So che stai facendo spettacolo, se vuoi ti porto i caffè”, lui mi ha detto “Vieni”. Quello spettacolo era “4,5,6” ed io sono stato molto contento di vederlo lavorare da dentro, perché era una persona rara; spesso i professori sono dei pessimi scrittori, in questo caso era un fenomeno della scrittura, un grandissimo professore e una persona molto figa. Tra l’altro un mio grande rimpianto è che non mi ha mai visto sul palco, perché io avevo appena iniziato e lui mi disse “Ho visto che fai stand up, devo assolutamente venire a vederti”, era l’estate in cui scoprì di star male. Spero sia bello il lavoro fatto da Sorrentino, comunque c’è un mondo di affetto intorno a Mattia che è roba rara.
Nella vita di tutti i giorni senti la pressione di dover essere simpatico per forza?
"Guarda, quando sono sceso a patti con il fatto che stava diventando il mio lavoro ho capito che non puoi fare show tutto il tempo, per due motivi: il primo è che ti serve star zitto per osservare un pò, il secondo è che le persone si allontanano da te, perché diventi un povero scemo insopportabile. Quando scendi a patti con questo, aldilà delle aspettative, capisci che è forse il gradino psicologico più difficile da superare, ormai quindi non la sento più"
C’è anche il mito delle persone che di lavoro fanno ridere ma sono un po' tristi…
"Si, un po' è vero. Per forza, tragedia e commedia sono sempre una sopra l’altra, è vero che c’è una nota di malinconia in tutti, però è vero che è un lavoro, se riesci a farlo, molto bello"
Quali sono stati i tuoi riferimenti comici italiani?
"Gli spettacoli di Luttazzi li guardavo tutti, poi si è capita, diciamo, la “magia”, ma ha fatto un grande lavoro di traduzione di un grande stile comico. Aldo, Giovanni e Giacomo, tantissimo, il gusto di sapere tutte le battute a memoria e rifarle; e il fatto di fare le battute di tutti e tre forse mi ha ispirato nel fare diversi personaggi sul palco. E poi tutto il mondo Gialappa’s e Serena Dandini, solitamente si dice che la Gialappa’s piace a Milano e la Dandini a Roma, ma in realtà piacciono anche a parti inverse"
Beppe Grillo ha tradito la mission del comico?
"È il tradimento per eccellenza. Un giorno qualcuno magari farà un film sulla sua storia, a partire dalla battuta che fece sui socialisti. Quel momento ha creato un effetto fionda nel suo ego, che poi si è manifestato nel 2000 con quegli spettacoli che erano brillantissimi ma che a rivederli oggi lui ti appare come un santone che parla alle persone. Poi lui ha una carica comica eccezionale, ma non c’è niente di comico, diventa drammatico. Il tradimento quindi c’è, il tuo lavoro è fare il giullare, dire “Il re è nudo”, se diventi il re…però non è colpa sua, è colpa dei tempi, lui ha cavalcato il sentimento; se si da retta al giullare non ha più senso la struttura. Quindi in realtà è interessante ma è certamente un tradimento del suo ruolo"
L’impressione lato pubblico spesso è che i comici posseggano una sorta di verità, poi farlo diventare un partito politico è tutt’altra cosa, c’è un film che racconta abbastanza bene questo fenomeno, si intitola “L’uomo dell’anno”, di Barry Levinson con Robin Williams che interpreta, molto prima della nascita dei 5Stelle e dell’avventura presidenziale di Zelensky in Ucraina, un comico che si candida alla presidenza degli Stati Uniti…tu ti senti in qualche modo portatore di verità?
"Assolutamente no, ovviamente no. Anche perché, come nel film, che ho visto, l’importanza è porre le domande, la cosa bella è lasciare nel pubblico una domanda nella testa, ma la risposta poi se la deve cercare da solo. Anzi il rischio è che se proponi verità o parli per tesi poi il pubblico pensa: A) sei pesante, B) non sei un prete, C) non sei un politico"
Quali sono le prospettive di uno stand up comedian? Potenzialmente puoi farlo per sempre, ma tu hai altre aspirazioni? Hai frequentato il Centro Sperimentale quindi immagino che avrai pensato al cinema…?
"Si, certamente, è anche alla base della mia formazione. Anche la scrittura di uno sketch ricorda, perlomeno nella mia testa, la scrittura di una sceneggiatura. In America e in Inghilterra la stand up è la base della comicità, da loro è il punto di partenza, da noi il punto di arrivo. Sicuramente scriverò film, la stand up mi ha dato anche le spalle larghe nel proporre le idee, quando sei un giovane autore è giustamente più complesso"
E lo consideri un rischio? In passato chi ha provato a fare il salto ha rischiato di cadere…
È un rischio che è giusto prendersi
In America la stand up diventa parte della narrazione sociale, per avere un’idea chiara ascolti il politico ma ascolti anche il comico. In Italia siamo pronti in questo senso?
"La politica non sarà mai abbastanza seria da permetterti di vedere l’altra faccia. Noi abbiamo avuto i nostri autori da stand up, quindi cinici, cattivi, sociali, politici, erano tutti gli sceneggiatori della commedia all’italiana. Scarpelli scriveva battute allo stesso livello, se non più violente, dei grandi autori come Lenny Bruce, era semplicemente un media differente"
Quali sono i prossimi passi che deve compiere la stand up per imporsi ancora di più?
"A me mancano i luoghi, ce ne sono pochi, a Milano si parla solo del derby e dello Zelig, che sono solo due club, in America ce ne sono ottomila in una via; certo è una città da milioni di persone, ma da noi manca la cultura dello spazio"