I l mercato della pubblicità è una cascata. In cima ci sono le imprese che investono. Poi gli editori, le agenzie, le compagnie tecnologiche. E gli influencer. Al di là dell'ironia che spesso accompagna il termine, dentro questo universo c'è un po' di tutto: il ragazzino che si crede un divo per qualche centinaio di follower ma anche il ventenne con una comunità solida.
Le starlette decadute che provano a riciclarsi ma anche creatori di contenuti originali che fatturano milioni. Tutti, chi più chi meno, in questo momento sono accomunati da una cosa: con la crisi da Covid, gli inserzionisti stanno facendo scorrere meno acqua.
Quanto hanno perso gli influencer
Secondo un rapporto di Influencer Marketing Hub, il 69% dei marchi pensa di ridurre la spesa pubblicitaria nel 2020. Tre su quattro hanno postato meno contenuti sui propri canali social durante l'epidemia. Solo una campagna su dieci è andata avanti come pianificato. Tutte le altre sono state cancellate (circa un terzo), rimandate o rimodulate.
I numeri sono coerenti con quelli di Luca Casadei, ceo di WebStarsChannel, l'agenzia che cura alcuni tra gli youtuber di maggior successo, come Favij e Mates: “Abbiamo avuto un calo del 90% dalla prima settimana di marzo”.
Sono rimaste in piedi le campagne che riguardano i settori favoriti dalla clausura, come il fitness, le piattaforme di streaming, l'e-commerce. Più che una fuga sembra però una pausa: “Nessun cliente ha annullato la campagna. Hanno solo rimandato i progetti, aspettando il momento migliore”.
Gianluca Perrelli, ceo di Buzzoole (piattaforma per l'influencer marketing con accento sull'analisi dei dati) il settore ha perso “circa il 30%”. Una percentuale che sarebbe stata più severa fino a qualche giorno fa. “In queste settimane stiamo ripartendo a pieno regime”.
Il freno della paura
Il freno degli investitori non dipende solo dal fattore economico. È anche questione di cautela: “C'è stata, soprattutto all'inizio, molta paura. Anche imprese con ricavi in crescita hanno deciso di aspettare”, spiega Perrelli. Lo scenario è inedito per tutti. E, al di là delle casse più o meno piene, alcuni investitori hanno temuto di essere associati a contenuti cupi. O, peggio, di essere accusati di sciacallaggio.
Il problema esiste. Secondo un'indagine di Kantar, tre consumatori su quattro pensano che le compagnie “non dovrebbero sfruttare la situazione” a livello commerciale. Serve tatto, ma non è necessario smettere di fare pubblicità: solo l'8% pensa che i marchi avrebbero dovuto o dovrebbero sospendere le proprie campagne.
È vero però che l'epidemia ha cambiato la sensibilità: il 78% degli intervistati si aspetta una comunicazione più utile nella vita quotidiana e il 75% chiede informazioni su quello che le aziende stanno facendo. Concretezza e trasparenza.
Ripartenza: avanti adagio
La sfilza di segni meno nel mercato pubblicitario offre un'immagine d'insieme ma tende a dare un quadro troppo omogeneo. Ci sono infatti imprese che non stanno soffrendo (il 28%, secondo Influencer Marketing Hub, ha registrato un aumento delle vendite). E una compagnia su quattro afferma di voler incrementare le attività di marketing.
Facebook e Alphabet (i grandi accentratori della pubblicità online), dopo aver registrato un pesante calo degli introiti a marzo, hanno rivelato “segnali di stabilizzazione” nelle prime settimane di aprile. Per stessa ammissione di Mountain View, però, il recupero di Youtube sembra più lento rispetto a quello della sorella Google: “I creator con pubblico 'kids' e della Generazione Z (in pratica tra i 6 e i 16 anni) hanno retto”. Ma, conferma Casadei, le visualizzazioni degli youtuber che fanno capo all'agenzia “sono scese comunque da 360 a 298 milioni al mese”.
Secondo Perrelli, il mondo degli influencer ha però un grande vantaggio: la reattività. Per diverse ragioni, sia creative che tecniche: “Alcuni creator sono stati audaci e hanno sperimentato”. Hanno poi “meno vincoli produttivi e possono riattivarsi più in fretta, mentre gli spot attuali sono tutti molto simili e le nuove produzioni sono ferme”.
Il panorama è però ancora molto incerto, tanto che neppure Facebook e Alphabet hanno azzardato stime per il trimestre in corso. L'atteggiamento ancora nebuloso è confermato da un altro rilievo di Influencer Marketing Hub: la quota di aziende che si attendevano un “impatto significativo” sulla spesa pubblicitaria era del 69% nel secondo trimestre. Il timore persiste per il 28% delle compagnie nel secondo e per l'11% nel terzo periodo.
In altre parole: per molti il peggio sembra passato. Eppure quasi 7 su 10 si attendono che la pandemia condizioni in qualche modo i propri investimenti nel 2021. “Le aziende stanno iniziando a pianificare - afferma Casadei - ma è difficile capire una data precisa perché non si tratta di una crisi solo economica ma anche di un nuovo modo di comunicare”.
Dai “ragazzini presuntuosi” ai tutorial: ritorno alle origini
Il lockdown, secondo il ceo di WebStarsChannel, non sta spingendo solo le aziende a trasformarsi: “Per i creator è stato quasi un percorso pedagogico. Chi ha la testa ha capito che bisogna essere umili e produrre contenuti di valore, perché si ha la responsabilità di parlare a milioni di persone”.
“Quando ho iniziato nel 2008-2009 - ricorda Casadei - si andava su Youtube per vedere i tutorial. C'è stata una prima evoluzione in due direzioni: gaming e makeup. Era tutto estremamente amatoriale. Favij è partito dalla sua camera, con una webcam da 10 euro e il pc del papà. Oggi ha 6 milioni di iscritti. Era il cavallo di Troia di una generazione: non più bello degli altri, non più bravo a giocare degli altri. Il pubblico si immedesimava. E questo è sempre stato il dna di Youtube. Poi ci siamo un po' persi. Quel mondo dal sapore casalingo ha esagerato, volendo assomigliare sempre di più alla tv”.
Il settore si è popolato di “ragazzini presuntuosi solo per aver fatto quattro numeri su TikTok, senza capire che il successo è una scoreggia davanti a un ventilatore. Prima del lockdown ho avuto il dubbio che mi piacesse ancora fare questo lavoro. Oggi invece sono contento perché credo che Youtube stia reimparando a essere genuino”. Non è una questione di amarcord: chi è tornato alle origini, sottolinea Casadei, in questo periodo “ha performato di più”.
I follower non si contano, si pesano
Anche Perrelli riconosce “una mutazione degli influencer”. L'improvvisazione o la rendita in scia alle comparsate tv stanno “lasciando spazio a una nuova categoria più audace e adattiva, capace di creare contenuti e con un know how verticale”. Si va verso una “professionalizzazione”. Il lockdown e l'epidemia starebbero avendo – secondo il ceo di Buzzoole – anche un altro effetto: “Stanno sdoganando il fatto che i follower non sono un kpi”.
Tradotto: non sono un indicatore chiave per orientare e misurare una campagna. I numeri più visibili cedono il passo a “trust ed engagement”. In altre parole: è inutile avere 200 mila follower se poi metà sono bot e l'altra metà non interagisce. Solo se c'è una comunità unità e partecipe si ottiene quello che Perrelli chiama “dividendo fiduciario”, che si può poi tradurre in fatturato.
La ricchezza di uno youtuber “è nella sua community. E questo non cambierà”, spiega Casadei. Il punto però è capire cosa sia una community: “Va oltre i numeri e passa per la fidelizzazione, che arriva intrattenendo, non vendendo. Molti creator invece si sono prostituiti per guadagnare tanto e vendere tutto. Ma le marchette fanno schifo e non portano nulla al cliente”.
L'idea (e la speranza) di Casadei è quella di mantenere gli stessi volumi o crescere “facendo meno operazioni, perché vorrà dire che c'è stata più conversione”. Qualche utente (finto o passivo) in meno ma più azioni reali che coinvolgano gli inserzionisti. I follower non si contano, si pesano.