Laura Pausini – “Il primo passo sulla luna”: Pure Laura Pausini si è ridotta a flirtare con le hit estive, questa musica take away che dura quanto un colpo di tosse ben assestato ma dà molto più fastidio. “Il primo passo sulla luna” non ha un briciolo di anima, si regge a stento fino a quando non parte il cafonal ritornello, momento in cui la sfacciataggine del brano ti esplode in faccia; non sappiamo se è peggio questa avventura estiva o quando ci propone quel suo pop sguaiato, anacronistico, povero e scontato. Siamo seriamente combattuti. Charlie Charles feat. Ghali, Thasup e Fabri Fibra – “Obladi Oblada”: Un fuoco d’artificio di contemporaneità, non a caso fatto esplodere facendo detonare insieme quattro dei più splendenti genietti della musica italiana attuale, quattro dei pochi ad aver capito in che modo le nuove sonorità possono essere utilizzate per mettere in piedi pezzi allo stesso tempo intellettuali ed accessibili a tutti. Pura pop-art musicale. Adoviamo. Colapesce e Dimartino – “Considera”: Il “Pop esistenzialista”, così come loro stessi amano definirlo, di Colapesce e Dimartino, in questo oceano di inutilità su pentagramma, risulta vitale per non cadere, a proposito di esistenzialismo, in un buco nero di depressione sonora, un morbo che ci siamo appena inventati e che ti costringe a non ascoltare mai più nulla pubblicato oltre il 1974. Vitale anche quando cogli totalmente l’ironia insita nella loro linea narrativa, musicale e video, ma invece di sentirti in qualche modo preso in giro, in difetto, perché in certi guizzi (“Lo sai che mi deprimo, ma con stile”) ti riconosci manco il pezzo l’avesse scritto mammà, al contrario realizzi che si tratta di passaggi illuminanti che manco il miglior Iniesta, realizzi quanta genialità nel trovare uno stile, un’immagine, un codice, e prendi tutto così com’è, bellissimo, così com’è, appassionante, così com’è. Coez e Frah Quintale – “Alta marea”: Quando abbiamo visto salire sul palco del MiAmi Coez e Frah Quintale per cantare un paio di inediti scritti a quattro mani e quando poi è stato annunciato (per il prossimo settembre) il loro joint album, ci siamo resi conto che la storia non poteva che andare a finire così. Coez e Frah Quintale sono due dei rapper scoperti e consacrati al successo dal pubblico dell’indie, non a caso, perché si tratta di due rapper che si sono distaccati da quella deriva gangsta machista per concentrarsi su temi che potessero significare qualcosa per un determinato pubblico, quel pubblico che non si lascia più infinocchiare dal contenitore, ma pretende anche il contenuto, portandosi a casa brani particolarmente azzeccati e relativo sacrosanto successo. Coez e Frah Quintale non si sono mai accontentati di fare la parte degli artisti, hanno fatto di tutto per esserlo, esplorando come uomini dinanzi al proprio (e nostro) sentimentalismo e come musicisti, spinti in ambient che molti dei loro colleghi non concepiscono nemmeno come possibilità. “Alta marea” è un pezzo contagiante e cool, ti fa fare si con la testa senza perdere il senso della misura, senza perderci di vista come esseri umani ed ascoltatori; alla fine dell’ascolto, affamati in attesa di goderci l’intero album. Boomdabash feat Paola&Chiara – “Lambada”: Noi capiamo tutto, giurin giurello, noi capiamo che “Lambada” non si rivolge a quarantenni radical chic, non pretendiamo che a tutti salga un’apatia mortifera ai primi caldi, che passa solo a settembre inoltrato; noi capiamo che non tutti sorridono nel sonno mentre il cervello architetta le più svariate modalità per far sparire il reggaeton dalla faccia della Terra, capiamo che non tutti hanno così tanta masochistica tenacia nell’analisi di ciò che vedono e, magari per lavoro, ascoltano, riflettendo amaramente su quanto non ci sia proprio niente da ridere, niente da ballarsela in questo triste universo. Ma possibile che l’alternativa sia “Lambada”? Possibile che non si trovi un compromesso meno irriverente, sfrontato nell’essere dannatamente superficiale? Non è la prima volta che i Boomdabash ci propinano hit annacquate di questo tipo, quest’anno c’è l’aggravante Paola&Chiara, la prova che evidentemente la musica italiana sentiva addirittura il bisogno di tirarle fuori dal dimenticatoio, che questo intrattenimento musicale vuoto e inutile non è capitato, è stato cercato con la precisione di un cecchino. E noi poveri appassionati di musica decente siamo quelli dall’altra parte del fucile. Auguri. Baby K – “M’ama non m’ama”: “Mamma diceva che no, non si fa m’ama non m’ama dentro una dancehall” recita il ritornello, se magari la signora avesse anche trovato il tempo per far ascoltare alla piccola Baby K un po' di buona musica a quest’ora forse non ci ritroveremmo in questa situazione scomoda, alle prese con l’ascolto di una hit estiva talmente leggera da sfiorare l’inesistenza cosmica, un cratere nel quale o decidiamo di sprofondare tutta la pochezza di questa canzone o di buttarci noi; il mondo non è grande abbastanza per contenere entrambi. Omar Pedrini – “Sospeso”: Non che ci aspettassimo nulla di meno, ma “Sospeso” di Omar Pedrini è un gran disco che mette insieme l’autenticità dell’indie dei tempi suoi, quindi quello volutamente e decisamente e convintamente schierato in una battaglia intellettuale contro la musica leggerissima dell’epoca; e le doti cantautorali di un artista centrato, nei temi e nelle sonorità, mai fuori tempo, sempre accogliente. I brani infatti ti abbracciano, filano dritti al punto e sono tutti tutti pensati con la semplicità di chi in quei versi, in quelle parole, in un certo pensiero musicale, si riflette con naturalezza e alla perfezione. Lui lo chiama “Rock contadino”, intendendo forse quello che proviene dalla terra, terra intesa come periferia, geografica ma anche della discografia, dove molti artisti si sono rifugiati per poter conservare le proprie modalità d’uso della materia prima musica; ma, non prendiamoci in giro, “Sospeso” è un album da cantautore vero, come oggi non ne nascono più. Purtroppo. Ana Mena feat. Guè – “Acquamarina”: Fosse semplicemente un brano brutto lo cestineremmo senza pensarci su troppo, ma in realtà “Acquamarina” ci stuzzica questo fastidioso retropensiero sulla musica industriale che è come una puntura di zanzara che non riesci a non grattarti vigorosamente, anche se sai che sarebbe meglio lasciarla in pace. Per cui eccoci, tiriamo fuori le unghie: questo evidente, imprudente, spregiudicato e nauseante sapore di prodotto da catena di montaggio abbiamo paura rappresenti un segno dei tempi, una linea sulla superficie della storia della musica oltre la quale è difficile tornare indietro; come se qualcuno si fosse studiato una ricetta, neanche lontanamente appetitosa, e questa venga cucinata e ricucinata e propinata agli ascoltatori come se fossimo cavie da laboratorio che da questa pappetta latina dipendessimo, ogni sacrosanta estate, per sopravvivere. E poi Ana Mena risveglia in noi un nazionalismo del tutto sconosciuto, tipo: non ce l’ha un Paese tutto suo dove andare a proporre ‘sta roba? Non c’è un partito politico che alza la voce denunciando il fatto che questa spagnola sta rubando il lavoro alle cantanti pop italiane? Cioè, non bastava il 4-0 ad Euro 2012? Questa cos’è? La beffa? Nicolò Carnesi – “Dinamite”: Con quel senso di eterno tipico della composizione dei grandi cantautori, l’eccellente Nicolò Carnesi ci propone un’immagine apocalittica, un’esplosione di poesia nel momento in cui la nostalgia, rispetto la realtà che ci circonda, si incontra e scontra con la plastificazione esasperata della vita che stiamo costruendo; due mondi che non abbiamo ancora capito come far convivere, un bivio in cui tristemente l’umanità (che doveva diventare migliore dopo la pandemia, ricordate?) sceglie sempre la strada opposta a quella della poesia. Per fortuna c’è la musica a tirarci l’anima per le orecchie a galla…cioè, non tutta la musica, ma sicuramente quella di Carnesi. Santi Francesi – “La noia”: Stravincitori di X Factor propongono, armati della loro capacità di animare le idee con un raffinatissimo tocco tech, un pezzo molto interessante sulla noia, in qualche modo dando suono e parola a quel vuoto che, a ben ragione, ci terrorizza, dinanzi al quale restiamo immobili, pietrificati. “La noia” potrebbe essere un’ottima soluzione per far riprendere il sangue a sgorgare nelle vene. Oppure no e magari ci ingoierà tutta la domenica pomeriggio; ma almeno avremo ascoltato buona musica. Nayt – “Habitat”: Non è solo come dice le cose, quella sua capacità di farsi ballare le parole sulle labbra, l’interpretazione che non si appoggia sulla semplice funzionalità della rima; non sono solo le cose che dice, questa analisi spietata, di questo malsano modo che ci siamo inventati per stare al mondo, e anche di se stesso, per il quale non prova un briciolo di compassione. È più che altro la sensazione di star lì ad ascoltare questo ipnotico sfogo, sempre misurato, preciso, da bisturi in un universo hip hop che spara a raffica con i cannoni, colpendo tutto e alla fine niente. È questo irrinunciabile invito alla riflessione, all’introspezione, questa seriosità in un mondo che, al contrario, insegue affannosamente la risata a tutti i costi, la semplicità. È che Nayt è un artista vero, ancor prima di scendere nello specifico parlando di flow, di tecnica, di contenuti, sempre perfetti; e “Habitat” è la sua casa, l’ambiente che si è creato, volutamente pieno di punti interrogativi, di riflessioni, un luogo musicale in cui non ci si volta dall’altra parte dinanzi ai problemi. E poi, certo, chiaro, un disco meraviglioso. Anastasio – “A-profitto”: Anastasio è un cantautore necessario, uno che non perde mai l’occasione per denunciare; se stesso, spiazzando la propria stessa umanità, incastrandola in un mondo di cui riconosce le storture ma dal quale non si tira mai indietro. E poi anche la nostra razza, i nostri casini, questi oscuri meccanismi che ci condannano all’oblio della ragione. In quanto alla scrittura, alziamo le braccia, parliamo di un vero e proprio studioso della parola, in quanto concetto e in quanto suono, un autore come ce ne sono pochi ad oggi in Italia; stra-amato ai tempi di X Factor, dove ci eravamo subito accorti che c’era qualcosa in più, di diverso, da uno di questi “rappusi” da inscatolare e vendere ad una manciata di ragazzini con il cuore sordo, sarebbe ora di riconoscerglielo anche a livello discografico, concedendogli gli stream che merita. MOX – “Pampero”: Non possiamo farci niente, questo romanticismo antico di MOX ci cattura da sempre. Versi che sembrano arrivare da lontano, questo suo cantare etereo in cui i versi si bastano, disegnano con precisione chirurgica i lineamenti delle storie, sono una caratteristica che diventa sempre più unica. La musica di MOX è lenta, si prende il tempo per respirare, per stiracchiarsi, per entrare nel profondo, non si accontenta di un millimetro quadrato di pensiero, pretende attenzione e passione. Insomma, è la musica che ci piace, quella vera, non uno spot. North Of Loreto feat. Mecna e Gaia – “Robot”: Non è che ogni pezzo andante, magari anche che strizza l’occhio all’estate (uscendo, di fatto, in estate) debba per forza mortificare l’invenzione stessa della musica, farci pentire di ogni nota mai capitata a portata di orecchio in questi ultimi quarant’anni; magari si possono proporre pezzi che siano accessibili, ballabili, tosti ma, comunque, pensati con criterio, con gusto. “Robot” ne è esempio perfetto, Bassi Maestro in questo suo side project elettronico (North Of Loreto) coinvolge il bravissimo rapper Mecna e Gaia, cantante dalla sensualità ipnotica e devastante. Il pezzo è una mina totale, è divertente e complesso, sulle prime ti fa ballare, poi ti accorgi che c’è anche una storia, un intenso ping pong amoroso che ti cattura. Insomma, pezzo perfetto. Bravi tutti. Wayne – “Veleno di vipera”: Cassa dritta e pedalare, “Veleno di vipera” non è un capolavoro, ma perlomeno funziona, probabilmente anche grazie alle mani magiche di CanovA alla produzione, perché parliamo di Wayne, uno della sventurata Dark Polo Gang, in missione solista. Insomma, non riponiamo in questo ragazzo chissà quali aspettative, ma perlomeno in questo singolo troviamo un perché a questo suo cantare (Dio, ci perdoni) sempliciotto e monocorde. Se sarà un colpo di fortuna o meno lo vedremo in seguito, ad oggi alziamo le braccia e vi diciamo che può anche andar bene. Vegas Jones – “Il mio dawg”: Ottimo esperimento, non solo perché divertente l’utilizzo del sample della sigla di “Dragonball”, ma perché contrapporvi una storia (ben scritta) di strada risulta alla fine affascinante, intrigante, un’intenzione nuova in questo grigiore dilagante. Bravo. Piccolo G – “Zero”: Non un brutto brano ma dimenticabilissimo, serve molto di più per non essere ingoiati nell’oblio di questo pop usa e getta. La Sad feat Naska – “Summersad 4”: Da un lato l’intento emo punk, dall’altro un contenuto generazionale, ragazzi conciati come per attentare ai nervi delle sciure più ortodosse che in realtà altro non fanno che reclamare un mondo più giusto, perfino più calmo, più accogliente, pieno d’amore, insomma migliore. Ragazzi che sognano dal basso dell’abisso in cui li abbiamo spinti utilizzando la tristezza, la “sad” appunto, che ne deriva per esprimersi artisticamente. È tutto scoordinato, colorato, gli angoli sono da smussare, le produzioni da lavorare, ma è tutto maledettamente onesto. E noi, da questo lato, dovremmo riflettere su ciò che ci dicono questi ragazzi, in rappresentanza di un’intera generazione, prima di fargli muro come se fossero persone che non c’hanno capito niente. E se fossimo noi a non averci capito niente? Kid Yugi – “Massafghanistan”: Se molti pensano (e hanno ragione) che Kid Yugi sia uno dei più credibili giovani rapper della scena italiana non è solo perché i suoi pezzi sono buoni pezzi, ma perché in un mondo che sforna numeri stratosferici e nuovi presunti fenomeni dietro ogni angolo della strada, lui è riuscito a trovare un linguaggio che lo rende in qualche modo unico. Certo “Massafghanistan” gode del sostegno di un professore delle produzioni come Night Skinny, ma più in generale la narrazione che Kid Yugi propone della strada, in questo caso Massafra, provincia di Taranto, non la solita plastificata Milano, è del tutto unica, rappresenta il confine che esiste tra onestà e disonestà, un confine che diventa sostanziale in musica, perché la differenza alla fine poi si sente, eccome. Bravissimo. Marta Tenaglia – “Peccato”: Una produzione supercool per un brano che ci conferma quanto Marta Tenaglia sia una delle migliori in Italia in questo cantautorato futurista che sfrutta al meglio le nuove sonorità offerte dalla tecnologia applicata alla musica. “Peccato” è un brano fascinoso, qualcuno direbbe intimo ma noi preferiamo utilizzare voyeuristico, osceno, inteso proprio come “fuori dalle scene”, fuori dal raccontabile, nudo; per questo, manco a dirlo, intrigante e ipnotizzante. La Tenaglia gioca con la musica, ne fa ciò che vuole e in questo gioco ci coinvolge fino ad incastrarci e conquistarci. Infatti la amiamo alla follia. The Andre – “Mentre non riesco a dormire”: Era partito tutto come uno scherzo, ora la faccenda si è fatta dannatamente seria perché “Mentre non riesco a dormire” è un discone. È scritto benissimo, è composto con estro, con ispirazione, scorre che è un piacere, non un solo pezzo sbagliato, non troviamo nemmeno particolari sbavature, è profondamente onesto e con un carattere enorme, da cantautore vero; talmente vero che la voce deandreiana che ce lo ha fatto conoscere sparisce, te ne dimentichi, ascolti semplicemente musica e parole di un ragazzo che di cose da dire ne ha evidentemente un monte. Nashley – “Giorni sbagliati (lividi)”: Una rincorsa ad un ritmo quasi di moto perpetuo appresso a quei momenti che vorresti il tempo cancellasse e non puoi, ma quell’inspiegabile forza che ti pulsa dentro è talmente forte che ci credi, che ti convinci che basta allungare un po' di più le dita per sfiorarli. In questo “Giorni sbagliati (lividi)” è crudele, crudele e bellissima. Clavdio – “Martedì giovedì”: Muro contro muro, la vita alle volte diventa una routine che non capisci e dalla quale non riesci a smuoverti, che ti lascia in bocca solo il gusto amaro di una speranza semplice, riavere indietro la tua serenità, un sacco pieno di giorni anonimi, di travi per reggere la tua esistenza; tua e, naturalmente, di chi ti sta accanto. Clavdio è penna assai raffinata, voce assai calda, idee assai composte. “Martedì giovedì” pezzo assai azzeccato. VV feat. Bais – “La domenica sul divano”: “La domenica sul divano, in pigiama e con un drink in mano, io e te”, che è il verso che regge le fila del ritornello, mentre intorno si disegnano immagini viste da dentro una finestra, restituisce tutta la calma di un giorno che dovrebbe essere imposto per legge di passarlo così. Un testo costruito talmente bene che ci è servito un secondo ascolto per rendere omaggio alla produzione del sempre ottimo Federico Nardelli, che è uno di quelli che i pezzi li fa sbrilluccicare come i diamanti della Regina, del Re, o di quello che è. Insomma, un pezzo senza buchi, bello ma anche utile, tipo che da oggi in poi lo useremo ogniqualvolta qualcuno oserà provare a deviare il percorso di una domenica perfetta: pigiama, drink in mano, io e te. Punto. Medy – “Bambola”: Non siamo qui a fare processi alle intenzioni, ma nemmeno recensioni alle intenzioni; un pezzo non può passare solo perché riconosciamo la volontà di distaccarsi dal trend attuale se quel pezzo poi in realtà è povera roba e campa solo del lavoro del bravissimo Andry The Hitmaker. Questo è “Bambola” purtroppo, e l’impressione è che per coprire la penuria di poetica si sia spinto così forte sul pedale dell’acceleratore della produzione da andare fuori giri e invece che andante proporre un sound semplicemente cafone. Spiace. Alla prossima. Olly – “Tutto con te”: Pop innocuo che sfocia in un ritornello da dance anni ’90 piuttosto grezza. Il pezzo spinge, ma non porta da nessuna parte; Olly dice che farebbe tutto con “te”, ma se questi sono i presupposti musicali, al massimo si va nella discoteca più truzza del litorale adriatico, ad importunare turiste tedesche ustionate con sandali e calzini, bevuti di birra calda e vestiti come Er Cipolla. Cricca – “Australia”: Serve preparazione, servono i muscoli, “Australia” è un brano estremamente gracile, già dopo i primi 30 secondi ti chiedi perché lo stai ascoltando, proprio non ne vedi il motivo. Federica_ - “Fulmini”: Buone intuizioni, sa di motorino mentre il vento di Roma ti scompiglia la pelle, lei aggrappata dietro di te, cantate a squarciagola contro la luce del tramonto, perché questo hanno di bello i giovani: sentono ancora dentro la libertà di potersela cantare. E questo dovrebbero tradurre in musica sempre quei giovani che si prendono la responsabilità di raccontare la propria generazione; come fa, bene, Federica_ in un brano che riempirà i ricordi di chissà quanti fortunati e maledetti giovanissimi. Brava. COMETE – “Peccato!”: A Comete di solito mancano i pezzi forti, perché lui ci mette tanta energia nell’interpretare pezzi non forti, infatti quando ha pezzi forti, tipo questa “Peccato!”, poi il suono vola, tutto sembra al proprio posto. Certo, parliamo di una sufficienza, niente che cambi la vita, ma se becchi questa canzone, tipo una domenica mattina, tipo mentre vai al mare, occhiali da sole sul volto, sorriso che sa di libertà, finestrino aperto e buona compagnia; la lasci e sei contento. Johnny Marsiglia – “Gara 7”: Quando un rapper è un buon rapper, magari proveniente da una scuola, una stagione, che non è quella di questi ragazzetti puntuti da questa tarantola razza Tony Montana, non c’è niente da fare, si sente. “Gara 7” è un autentico disco rap, che alterna pezzi dal sound classico, cui cuore è un flow perfetto, da esperto, che non bara con iper produzioni, ad incontri artistici cui protagonisti, non a caso, sono musicisti dall’inventiva altissima come, in questo caso, Post Nebbia, MezzoSangue, Davide Shorty; poche chiacchiere, tanto talento, tanta musica vera. “Gara 7” era atteso da tutti coloro i quali non vedono nel rap la scusa per tirare fuori le pistole giocattolo, ma un linguaggio che ti abbraccia, la consacrazione della parola, la parola come un pennello che dipinge le storie che hai dentro e questo effetto risulta estremamente confortante. “Gara 7” è un disco rap esemplare, che arricchisce, che ti fa percepire che non stai perdendo tempo e che tutti i dischi rap dovrebbero essere di questo spessore. Altrimenti meglio non farli, meglio stare zitti. Karakaz – “Americanima”: La ruvidità del pezzo un po' stordisce, ma è rock pensato bene, che ricerca un’essenza e anche quando non la trova, perlomeno la sfiora. Ciliari – “Enoteca discoteca”: Pezzo divertente e trascinante, che non ha pretese se non quella di essere ballato barcollando brillocci in mezzo al salotto; ecco, questi pezzi, ben fatti, ben pensati, trovati come perle rare fuori dal circuito mainstream, ci fanno impazzire. Bravissimo. M.E.R.L.O.T. – “Aroma”: Una storia finita rispolverata tramite l’aroma che lascia in casa, sui vestiti, sulle lenzuola, quando ancora c’è e ne approfitti perché presto non ci sarà più; e con un pop leggero, contemporaneo, ben fatto anche se non particolarmente forzuto. Martelli – “Vita magica”: Una filastrocca in musica che cela, dietro i ritmi forzatamente estivi, una grande verità, spiazzante, incontrovertibile, irrinunciabile: “Perché lavori se poi godi a metà? Perché lavori se poi muori? Che lavori a fa’?”. Point, set, match. Roba che ti verrebbe di schiantare il computer dal quinto piano e andarti a buttare su un prato a fare niente. Niente. Lolita feat. Guè – “Daddy italiano”: Pur detestando tutta la narrazione Lolita-Papi-Daddy etc, etc…e pur constatando, per l’ennesima volta, quanto le barre di Guè siano povere di spirito; bisogna dire che questo brano, che riprende “Mambo italiano”, funziona perfettamente, vuole essere accattivante e lo è, vuole provocare e provoca, vuole ammiccare e ammicca, fa tutto ciò che deve. Riccardo De Stefano – “Bimbi dispersi”: Mantenendo una sorta di eterea distanza in fase di produzione, De Stefano racconta con onestà la propria generazione, che è anche quella di chi vi scrive, ci descrive come bimbi dispersi, appunto, persi come in un labirinto che non sappiamo più decifrare, assaliti da desideri umani e comunque irraggiungibili, come se tutto costasse una enorme fatica e grazie a pezzi come questo si possa stiracchiare lo stress che ne deriva, in un ritornello che tanto, come al solito, ci suoneremo e canteremo tra di noi e domani sarà tutto uguale. Ma almeno con un buon pezzo in più. Ottimo.