AGI - “Il Blitz sarebbe servito da rifugio notturno per gli studenti che si opponevano alla legge sulle Accademie di arte e moda e per i dadaisti da classe operaia che avevano preso d'assalto il salotto dei propri genitori”. Le pagine S-moda del Pais recensiscono il documentario “Blitzed” di Netflix che racconta la storia di un piccolo locale di Londra, durato appena lo spazio di 18 mesi, tra il 1979 e il 1980, dentro al quale si potè assistere al passaggio dal “nichlismo punk ad una sovversione molto più vistosa e colorita” che “segnò una filosofia di vita che continua ancora oggi, con fluide creature gender vestite con abiti recuperati da chissà quale armadio che continuano ancor oggi a popolare la notte”.
Il documentario è ricco di testimonianze di quei protagonisti per altro ancora viventi che quel luogo lo hanno vissuto, animato e reso famoso: “dal cantante Boy George al chitarrista degli Spandau Ballet, Gary Kemp, o l'acclamato costumista di Game of Thrones Michele Clapton. Lì si sono formati le ossa Chrissie Hynde (The Pretenders), Adam Ant, Billy Idol, Siobhan Fahey (Bananarama), Sade o John Galliano. E, soprattutto, l’educatissimo Steve Strange, che finirà per essere il numero uno in mezza Europa con la canzone Fade to gray dei Visage. Insieme a quello che sarebbe poi diventato il batterista di quel gruppo, l'estremamente eterosessuale Rusty Egan.
“I Blitz”, così erano soprannominati i giovani frequentatori del locale. “Ostentavano androginìa, anfetamine e una vocazione underground” perché “c’è stato un tempo, nell'Inghilterra del malcontento che si andava acuendo negli anni '80, in cui la cultura notturna diventava repulsione, arma d'assalto, gesto scherzoso di protesta contro la mano pesante di Margaret Thatcher”, si legge.
Nel descrivere la modernità di uno di quei protagonisti, Boy George, il giornale descrive il personaggio come uno che “lavorava in un negozio di moda ed era un noto cleptomane che rubava dalle tasche degli abiti appesi nel guardaroba di Blitz” perché non avendo soldi era costretto “a inventarsi un modo per farli”. Boy George condivideva un’occupazione abusiva in Warren Street con Stephen Jones. Studente alla St. Martins, Jones ha trovato il suo ruolo di “cappellaio matto” che avrebbe finito persino per abbigliare la stessa regina d'Inghilterra. Al Paìs racconta. “Ci siamo ribellati all'accademismo e siamo scesi in piazza”.
E riassume così la sua inclianzione per l’arte: “Le notti cominciavano due giorni prima di quella stabilita pianificando look, prendendo di mira i negozi d’abbigliamento usato Oxfam, reinventando i vestiti al volo dopo aver rovistato furiosamente nell’armadio. Dopo non meno di due ore di travestimento, si saliva in metropolitana, sperando che nessuno ti picchiasse per strada. Già nel Club, giudicavamo senza pietà gli abiti l'uno dell'altro, cercando di capire cosa diavolo stavamo cercando di dire attraverso di loro. Da quel momento in poi, tutto si è basato sul posare per ore e ballare come robot, senza mai abbandonare il bicchiere. Anche se la vera vita aveva luogo nei bagni. Sesso, droga, dramma… ”, riassume con una risata Jones. L'industria della moda è saltata sul carro e c’ha campato per un po’.
Annota il Paìs: “Jean Paul Gaultier vide per la prima volta il ‘cappellaio’, con uno squisito fez turco in testa. Lo chiamò e da allora ne fece uno dei suoi insostituibili collaboratori. Poi un'altra superstar, John Galliano, ha chiesto a Jones di unirsi a lui nell'avventura quando ha firmato con Dior nel 1996”. Un'altra storia underground.