AGI - Basterebbe fare due nomi, quelli di Mina e Guccini, per capire che si tratta di un weekend pregno di uscite significative per quel che riguarda la discografia italiana. Ma noi aggiungiamo il nome di Gazzelle, che sta prendendo la rincorsa verso l’Olimpico, di Ernia, fuori con quello che sarà certamente tra gli album più venduti dell’anno. Benissimo Geolier, male Fabrizio Moro, peggio gli “Amici” Aaron, Piccolo G e Niveo. Chicca della settimana: “Wrestling” di Gobbi.
Mina – “The Beatles Songbook”
Un disco di Mina è il regalo di un amico, un disco di Mina che canta i Beatles è un regalo del cielo.
Francesco Guccini – “Canzoni da intorto”
Il nuovo disco di Francesco Guccini non lo troverete su Spotify, né su nessun’altra piattaforma, d’altra parte lui stesso ha dichiarato di non avere nemmeno idea di cosa sia lo streaming; ma è anche lo stesso che si è autodefinito un, citiamo, “coglione” che non sa più scrivere canzoni, cosa che facciamo molta più fatica a credere.
O forse è vero, non che sia in alcun modo un, ricitiamo, “coglione”, ma che ad una certa la fiamma si spegne e ci si rende conto di non poter più regalare qualcosa di sé che sia significativo anche per gli altri. Tant’è che “Canzoni da intorto” non sono canzoni scritte da Guccini, sono canzoni, come racconta lui stesso, cantate da Guccini, in osteria, prima di interminabili partite a carte, che è un’immagine che ci taglieremmo un braccio affinché ci comprendesse in qualche modo, che ci commuove, e che in effetti perfettamente potrebbe fare da cornice a questi undici brani appartenenti alla cultura popolare, con arrangiamenti dal richiamo balcanico e folk.
Una carezza da parte di questo maestro assoluto e così rigido, e così guascone, e così amato, e così fondamentale per farci capire fin dove si allunga il significato, l’importanza, di una canzone, come singoli individui e come cultura popolare di un intero paese. E adesso allora ci tocca solo ringraziare.
Gazzelle – “Non lo dire a nessuno”
La sfacciata verità che Gazzelle regala, quasi con artistico sadismo, a chi ascolta i suoi brani, mette quasi in imbarazzo, come se ti stuzzicasse con la punta della penna, come se ti volesse costringere alla verità delle cose, anche quando sono bugie, quelle che nel brano sostiene di essersi “bevuto”, come quando ti invita, evidentemente amareggiato, a non far partecipi gli altri della propria gioia, non per egoismo o per scaramanzia, ma perché spesso la gioia ti fa abbassare la guardia nel bel mezzo di una furiosa tempesta di jab e il rischio è di uscirne pesantemente tumefatti.
Dal punto di vista puramente tecnico “Non lo dire a nessuno” non ci dice niente che non sapessimo già: Gazzelle è un cantautore pronto al futuro ancora più sbrilluccicante che lo aspetta, Gazzelle ha trovato quello stile che la generazione indie dalla quale proviene ha solo sfiorato, non è riuscita a dominare né a trattenere né a inglobare per arrivare ad altro. Gazzelle è arrivato ad altro, è arrivato addirittura oltre e i suoi brani continuano a vivere di questo profondo significato generazionale. Una cosa che ha lui e solo pochissimi altri, ma, in tutta onestà, in maniera così efficace e accessibile, in questo preciso istante, non ci viene in mente nessun altro.
Ernia – “Io non ho paura”
All’interno di questo gran bel disco di Ernia è possibile ricostruire tutto l’albero genealogico del rap contemporaneo. C’è il rap che commenta il sociale, di denuncia, generazionale, c’è il rap arrabbiato, provocatorio, c’è il rap che strizza l’occhio al pop, ci sono i feat eccellenti, ci sono le hit, c’è la biografia, c’è l’intimo, c’è l’amore, c’è l’autoanalisi…c’è tutto ciò che possiamo berci se strizziamo forte lo straccio imbevuto di italico rap e ne filtriamo il meglio.
Ernia punta certamente al disco perfetto, senza sbavature, senza capriole mortali di machismo, senza adagiarsi sul suo già consolidato successo, senza andare oltre ciò che serve ad una narrazione onesta e diretta; e fa centro. “Io non ho paura” è uno dei migliori dischi rap dell’anno, lo si ascolta come si guarda un bel film, quasi seguendo una trama, che ora ti fa saltare sulla sedia, poi ti mette ansia, poi ti rilassa, poi ti fa sorridere, poi ti fa piangere, poi ti illumina, alla fine ti accarezza.
Una trama che va a morire ne “L’impostore”, una spietata, forse anche fin troppo, autoanalisi su ciò che rende Matteo Professione Ernia, sull’eventualità che alla fine la fiamma si spenga e che lui, da supereroe, torni umano, torni Clark Kent, col dubbio che di Superman abbia solo indossato l’abito, senza davvero mai volare; ma in questo ragionamento il rapper milanese non considera una cosa: Clark Kent non fa dischi così belli.
Geolier – “Money”
Uno dei più bravi, una perla rara, raffinata, efficace, il più americano tra gli italiani, il più napoletano tra i napoletani, un artista capace di andare, armato di una poetica precisa, cruda, pregna di carattere, sempre oltre la narrazione tipica legata al capoluogo campano, che è sempre quello che ci si aspetta da un artista originario di quelle parti; non ne parliamo se poi fa rap. C’è una luce del tutto unica, un raggio di sole particolarmente caldo, che trafigge i pezzi di Geolier; un’onestà spiazzante e godibile.
Fabrizio Moro – “Senza di te”
Ancora un fantasma che fuoriesce dal buco cosmico musicale che ha investito la musica italiana nei primi dieci/quindici anni del nuovo millennio. Una robetta liscia liscia, senza alcun guizzo al quale appendersi per ricordarsi anche solo mezza parola, la traduzione musicale di quell’attimo di sospensione mentale di quando ci si incanta a guardare un punto finchè qualcuno non ti schiocca le dita in faccia per farti tornare nel mondo dei vivi. O, se vogliamo proprio farla facile: una noia mortale.
Diodato – “Se mi vuoi”
Brano concepito per la colonna sonora di “Diabolik”, ormai diventata una specialità di casa Diodato. Le tonalità sono effettivamente molto cinematografiche, ascoltarlo così, su Spotify, senza immagini alle quali legarlo, risulta complesso, come origliare la festa del vicino attraverso il muro della cucina, che non vuol dire essere invitati. L’impressione dunque è che il brano sia efficace al cinema, decisamente palliduccio quando sputato fuori dalle casse.
Will – “Le cose più importanti”
Brano portato a casa con schiettezza e semplicità, un lutto cantato, spinto da una necessità espressiva che arriva come autentica, anche quando piuttosto banalotta.
Mostro feat. Emis Killa e Gemitaiz – “Bottiglie rotte”
Aperta dichiarazione d’amore verso la disciplina del rap, con un tocco vagamente old school che non fa che impreziosire il tutto, rendendolo ancora più onesto.
Alessio Bondì – “Amorte”
Bisogna ricordarci della morte per ricordarci di essere vivi; da questo breve e drammatico concetto, non si può scappare. “Amorte” segna il ritorno di Alessio Bondì, uno dei più raffinati e delicati ed intensi cantautori che abitano questo sbilenco stivale; ed è un brano che gioca su una sorta di potente chiaroscuro, il cantautore palermitano crea un piccolo corto circuito tra l’alto e il basso, tra la luce e le tenebre, tra il dentro che esulta e il fuori che appassisce, riuscendo a rendere perfino la cosa peggiore che riusciamo ad immaginare, per noi e per tutti, la morte, un passaggio delicato, una sinfonia pregna di una narrativa tanto espressiva quanto classica, di una poesia monumentale e allo stesso tempo intima e allo stesso tempo epica. Wow.
Mikush – “Shake It”
Questo brano bisogna ascoltarlo almeno un paio di volte, come abbiamo fatto noi, per apprezzare fino al minimo particolare questa imbarazzante deriva musicale. Come giocare la schedina e sbagliare tutte le partite; ci vuole talento.
Aaron – “Universale”
Universale, come il giudizio. E quel giorno finiremo all’inferno, lo sappiamo ormai, no problem. Ecco, nella nostra testa l’inferno è un posto dove si ascolta continuamente, a ripetizione, senza fermarsi mai, “Universale” e non c’è un computer a disposizione per scriverne male. Paura eh…?
Tredici Pietro feat. Lil Busso – “2€ / Secondo”
La cassa dritta funziona pure ma il contenuto è vergognoso. Il rap contemporaneo sta facendo passi da gigante, ha conquistato il Tenco con Marracash, ha conquistato San Siro con Salmo, ha conquistato ogni tipo di classifica su ogni tipo di piattaforma concepita da mente umana e ancora il venerdì ci tocca ascoltare “Stupida bitch/Tu non vuoi fottere con me/Sei fuori in un click/Non ho una pistola con me ma fumo la stick”. Roba che Tredici Pietro andrebbe rimesso sulle ginocchia di papà Gianni, deretano al vento, e sculacciato di gran carriera con quelle imponenti manone.
Piccolo G – “Più mia”
In un oceano di pressapochismo pop o, come lo chiamano i più, “Amici di Maria De Filippi”, Piccolo G in questa “Più mia” almeno ci mette un pizzico di carattere. Poi il pezzo, attenzione, è sempre povera roba, ma almeno c’è questa sorta di sussurrato, questa delicatezza di fondo, che ci dice qualcosa. Ehi, nulla che ci interessi, nemmeno per sbaglio, ma almeno qualcosa.
Gregorio Sanchez – “Nelle parole degli altri”
Quanto è bello ascoltare EP come quello di Gregorio Sanchez, che si intitola “Nelle parole degli altri”. Ora, da tempo alle parole degli altri prestiamo un’attenzione dovuta ma mai eccessiva, perché le parole degli altri, così come gli altri in generale, in linea di massima, deludono sempre un bel po'; specie in musica.
Allora quando poi ascolti dischi come questo, in cui è istintivo ed istantaneo accorgersi che effettivamente le parole stanno al posto giusto, e si è prestata un’attenzione concettuale alla costruzione stessa dei testi, dobbiamo ammettere che un sorrisetto scappa, simile a quello delle bambine alle quali rivolgi un sorriso e si nascondono imbarazzate dietro le sottane di mammà.
Gregorio Sanchez si conferma cantautore davvero centrato, essenziale nel raggiungimento composto e talebano di uno scopo artistico preciso, che soddisfi il bisogno di esprimersi con un approccio alla composizione artigianale, anche quando contemporaneo grazie all’ottimo lavoro svolto in fase di produzione da Golden Years. Quattro brani che si fanno ascoltare e lasciano un segno. Bravissimo.
Francesco De Carlo feat. Tu e Willie Peyote – “Tutta colpa dei governi precedenti”
Francesco De Carlo è uno dei più talentuosi stand up comedian che abbiamo in Italia, i Tu sono un duo che oscilla allegramente tra il cantautorato ironico e la pura attività di comici, Willie Peyote, lo sappiamo, uno dei rapper più impegnati, attenti, centrati, della scena italiana. Insieme hanno composto questa “Tutta colpa dei governi precedenti”, che dovrebbe essere una canzone comica; il punto è che questo è un paese talmente poco serio in praticamente ogni propria manifestazione, che una canzone che si regge su un sarcasmo di fondo fa il giro e diventa molto più seriosamente azzeccata di quanto possiamo immaginarci.
Per dire, nel testo ogni singola cosa capiti nella nostra vita, dalla più banale alla più dolorosa, è appunto colpa dei governi precedenti; che è una sonora presa per i fondelli all’italiano medio, sempre puntuale a puntare il dito verso gli altri, spesso e volentieri verso chi governa, e mai contro se stesso, spogliandosi in scioltezza da ogni responsabilità per tutte le storture della propria vita.
Farebbe ridere se non fosse che questa storia della colpa dei “governi precedenti” è diventata, penosamente, parte integrante, fondamentale, del dibattito politico e sociale riguardante il nostro paese. Conseguenze: il concetto in sé non fa ridere per niente e questo pezzo diventa dunque serioso, sensato e, tornando all’analisi tecnica, anche ben confezionato.
Junior Cally – “Le amiche sceme”
Pezzo che ingrana, che funziona, ma fortemente superficialotto nel contenuto; noi a questo punto preferiamo il Junior Cally condannato a bruciare come le streghe da Red Ronnie, ma che non si può dire sia privo di una certa cazzimma.
Niveo – “Scarabocchi”
Le opzioni sono due e due soltanto: o non esiste una sola persona che capisca, anche lontanamente, di musica nel circuito di “Amici”; oppure tale Niveo, che è un cantante e non un bagnoschiuma, ha pesantemente offeso qualcuno ai piani alti di Mediaset, o ha investito il gatto della De Filippi, o ha fatto proposte oscene e irriguardose alla Celentano…insomma qualcosa di profondamente ed inequivocabilmente oltraggioso.
Perché è impossibile credere che questo sia un brano lavorato e buttato sul mercato senza che nessuno alzasse la mano per dire “Non scherziamo ragazzi, va bene tutto, ma ora stiamo esagerando!”. Una cosa talmente brutta che ti dispera condividere lo stesso frammento di storia, vorresti andare molto più avanti o indietro nel tempo affinchè niente abbia a che fare con te e con i tuoi cari.
Basiliscus P – “Spuma”
Roba seria, impegnata, musica concepita per la musica, per il gusto di inebriarsene, musica che non guarda in faccia a nessuno, musica che parla in maniera fluida e chiara anche con un utilizzo della parola quasi assente; che poi nella stragrande maggioranza dei casi gli artisti danno fiato alla bocca riuscendo a dimostrare solo di non essere artisti.
I bravissimi Basiliscus P invece, pur non togliendosi lo sfizio di un certo intellettualismo, che alle volte li fa cadere o in momenti troppo spigolosi o in labirinti musicali forse eccessivamente complessi, buttano giù un album vivido, che campa di un ritmo fortemente espressivo, inseguendo una trama ben precisa all’interno della quale alti e bassi, pause ed esplosioni, si alternano e si fanno narrativa musicale rara ed eccellente.
In un mondo in cui la musica diventa sempre più pretesto per arrivare ad altro, da un enorme sollievo ascoltare i lavori di ragazzi che trovano puro evidente godimento nella produzione di buona musica che non abbia (come chiaramente non ha e non può avere) chissà quali pretese dal mercato; giusto esserci nel caso in cui qualcuno avesse voglia di andare oltre un facile intrattenimento. “Spuma” non è un disco facile, non lo vuole essere e va benissimo così.
Gobbi – “Wrestling”
Brano dalla matrice decisamente nostalgica, che guarda al passato con chiarezza, senza dubbi, dritto per dritto; il che non è una cosa così scontata in un universo, quello musicale italiano, in cui il contenuto spesso viene dribblato da giri di parole buoni solo per riempire un foglio bianco come le proprie intenzioni. In questa “Wrestling” invece si percepisce netta la voglia, no, la necessità, di raccontare qualcosa, di rivolgersi a chi non c’è più, ripercorrendo la strada dei ricordi, dandogli nuovamente vita e vita nuova, restituendoli ad una dimensione toccante che si adagia benissimo su una interessantissima e correttissima composizione melodica. Bravissimo.