AGI - Dani Faiv sforna un disco rap molto contemporaneo, perché se è vero che il pop ormai non può più fare a meno del rap, è vero, specie col passare del tempo, anche il contrario. “Il rap – dice all’AGI - ha dato l’input al pop per non avere paura. Secondo me negli anni passati il pop aveva dei canoni, che dovevano essere quelli, la struttura pop è di otto barre, più ritornello…il rap invece ha detto no, ha fatto capire che puoi fare delle hit anche stravolgendo la struttura”.
Dani Faiv, vero nome Daniele Ceccaroni, spezzino classe 1993, con “Faiv”, si conferma uno dei maggiori esponenti della scena rap nazionale, certamente uno di quelli con più orecchio per il suonato, uno di quelli che meno si fa condizionare dagli stilemi del rap, quelli che ti vogliono incattivito, imbruttito, arrabbiato, macho macho e, preferibilmente, pregiudicato.
Dani Faiv a questo oceano di perplimenti cavolate risponde con un disco che si fa ascoltare con estrema facilità, senza però rinunciare alla cazzimma ma, soprattutto, senza rinunciare alla sperimentazione. Dentro questo “Faiv” infatti c’è del pop, c’è del rock, c’è molto suonato insomma, e, attenzione, sembra stupefacente, ma ci sono anche dei contenuti, c’è l’intenzione vivida di raccontare qualcosa.
Bella “Mayday”, un grido d’aiuto contro il tempo che passa e ti travolge, stupendi i duetti con Nayt e Leon Faun, che sono altri due genietti assoluti della nuova scena conscious rap; ci piazza dentro perfino due mega hit, “Venezia” e “Foto di noi”, che hanno le potenzialità per suonare benissimo in radio, e anche “How To”, brano danzereccio e originale orchestrato insieme a MYSS KETA. Notevoli anche “Olio e acqua” e “Clochard”, che sono due critiche garbate ma discretamente aspre ai colleghi del rap, nelle quali Dani Faiv, senza tanti giri di parole, si dichiara fuori dal game, fuori da questo mondo alle volte troppo, davvero troppo, plastificato.
Dani Faiv insomma sforna un disco rap molto contemporaneo, perché se è vero che il pop ormai non può più fare a meno del rap, è vero, specie col passare del tempo, anche il contrario. E non c’è da vergognarsene, come se al primo accordo eseguito con uno strumento musicale ti spuntasse in testa il caschetto di Laura Pausini, si tratta di fare buona musica e “Faiv” è pieno zeppo di buona musica.
Da dove nasce la necessità artistica di scrivere questo disco?
Dimostrare a me stesso e a chi mi segue che voglio provare sempre a sperimentare. Perché rimanere nella mia comfort zone mi annoia, ho sempre bisogno di nuovi stimoli, di credere anche sempre di più in ogni progetto.
È un disco molto suonato, il che va anche un po' contro quello che succede nella scena rap…la tua è stata una scelta artistica ben precisa?
Si, ci sono tante cose suonate da più musicisti, però è una via di mezzo giusta, cioè non volevamo farlo tutto suonato e nemmeno tutto con groove al computer, ma per uscire da quei canoni e fare qualcosa di nuovo ci volevano anche i musicisti o comunque una band che sostenesse le nostre idee.
In “Mayday” parli della paura del tempo, ma cosa che ti fa paura del tempo?
Che non ce n’è troppo e come lo sprechiamo, perché per me siamo portati a sprecarlo. Secondo me si potrebbe dare più valore al tempo, semplicemente non perderlo per quanto si riesce e apprezzarlo quando si ha.
Quando ho ascoltato il brano mi è venuto da pensare al fatto che fisiologicamente il rap adesso c'è, sappiamo i numeri che fa, ma, chissà, io non lo penso, però chissà, magari potrebbe anche essere una moda, qualcosa che poi passerà. Mi chiedevo se anche questa fosse una tua paura rispetto al tempo che passa…
No, non ho paura di questa cosa, perché c’è stato un ricambio molto forte che ha reso parecchio stabile il mondo rap. Avendo molte contaminazioni e molti sottogeneri riesce sempre ad incastrarsi e proporsi come una formula più fresca, una formula più fresca che anche diversi artisti pop hanno usato. Quindi non ho paura, poi ho vissuto il momento in cui non c’era niente e facevo il cameriere per registrarmi i pezzi, avevo anche più fotta di ora, quindi non c’è problema.
Decidi di convocare Nayt per “Facce vere”, lui che è una delle facce più vere del rap…ma quante altre ce ne sono di facce vere nella scena rap?
Poche. Ti rispondo solo così, non voglio andare oltre.
Le hit secondo me sono “Foto di noi” e “Venezia”, che sono anche degli esperimenti che ti portano un po' distante dalle sonorità urban, ma tu come valuti il rapporto tra rap e pop?
Se si prende mantenendo lo stile proprio e non perdendo la propria personalità, la fusione può essere vincente. In “Foto di noi” sono proprio rimasto me stesso, in “Venezia” ho cantato dall’inizio alla fine, ma sento di rimanere me stesso anche in alcuni modi di scrivere. Il pop diventa più fresco perché viene contaminato da un background rap o di scrittura diversa dai canoni pop italiani, forse è quello che rende tutto particolare. Sono contento che dici “Venezia” perché era un mio dubbio, un primo esperimento.
Nella tua visione è più il rap che si sta fagocitando il pop o il contrario?
No, per me è più il pop, ma non è perché sono di parte, è che il rap è più fresco, è una novità rispetto al pop italiano classico, il pop sta tentando di rinfrescarsi da un po'…
…così prende linfa vitale dal rap…?
Si, secondo me il rap ha dato l’input al pop per non avere paura. Secondo me negli anni passati il pop aveva dei canoni, che dovevano essere quelli, la struttura pop è di otto barre, più ritornello…il rap invece ha detto no, ha fatto capire che puoi fare delle hit anche stravolgendo la struttura.
Mi ha colpito l’attacco di “Luna Nera”, che rapporto si sviluppa con un passato difficile, quel passato in cui magari in pochi credevano in te, quando uno “ce la fa”…
L’indifferenza è il miglior disprezzo, non perdo tempo a pensare a loro o all’odio o a cose del genere.
È un periodo un po' strano della storia del rap, i pionieri italiani sono tutti usciti con nuovi album, pensi di voler arrivare ai dischi di Fabri Fibra, di Marracash, ti danno un’indicazione anche rispetto al futuro?
Si, non troppa perché io non ascolto troppo rap italiano, quando succede mi motiva sempre a scrivere, perché dentro di me scatta una sana competizione, voglio dimostrare a me stesso che lo devo fare meglio. Mi scatta sempre questa cosa con il rap italiano, non so perché, non riesco a dire che vorrei fare un disco come quello di altri, perché ognuno ha la sua vita e cambia tutto in base a quello che vivi, Marra non scriveva così dieci anni fa, magari il mio prossimo disco parla di cosa vuol dire essere padre.
In “Olio e acqua” dici di sentirti fuori dalla scena rap, in “Clochard” critichi tutto il discorso attorno alla street credibility, cosa ti da fastidio della scena rap?
Che arriva un messaggio sbagliato, perché poi conosco tanti che vivono così, ma è chiaro che mi distacco da quelli che sento che non sono veri. Ma quello che mi da fastidio è il messaggio, perché oggi un ragazzino pensa che ci vogliono quegli elementi per spaccare e questo è un peccato, perché magari gli elementi ce li hai anche leggendoti dieci libri, facendoti una cultura, conosci un popolo perché ti fai un viaggio, è un peccato che si sia ridotto a questo e si sentono limitati da certi paletti che non esistono; ma è impossibile farglielo capire, perché se il trend, la moda, impone quello…io dico sempre che il rap è nato criticando Berlusconi e ora i rapper sono Berlusconi e sono fieri di esserlo, quindi non ci capisco più niente nemmeno io, ti dico la verità.
Senti la responsabilità di parlare ad un pubblico così ampio e così giovane?
Sono un po' negativo su questo, perché oggi la soglia dell’attenzione è diminuita. Mi spiace, io però non mollo il mio concetto, se ce ne sono solo cento che leggono il testo, avremo fatto qualcosa.
Ti fa un po' paura questa velocità della musica fluida, in cui nessuno sembra capace di restare?
Si e no, perché tanto se hai una buona fanbase, solida, che ti conosce, che ti segue, te la porti dietro anche senza la classifica e i numeri. Caparezza ha fatto molti meno numeri quest’anno col suo disco rispetto agli altri, ma poi fa i palazzetti pieni ugualmente, perché la sua fanbase è quella e la verità poi è quella. Oggi c’è tanto in gioco, i posizionamenti, le playlist, ci sono tanti aspetti attorno alla musica per fare i numeri, ma i numeri alla fine sono solo una mezza verità. Bisogna solidificare la propria fanbase e portasela dietro per sempre
Il settore della musica negli ultimi due anni è stato certamente messo a dura prova, probabilmente è stato il settore più colpito dalle restrizioni dovute alla pandemia, ma ha anche permesso ai lavoratori dello spettacolo di capire qual è il rapporto che li lega alle istituzioni, mi viene in mente Conte che parla degli aiuti agli artisti “che ci fanno tanto divertire”…tu in questo senso c’hai pensato?
Non mi sono sentito bene quando ho sentito quella frase, non è piacevole, però “indifferenza mood”, chi se ne frega, mi importa più quello che dice un mio amico o mia mamma di quello che dice lui. Pazienza se pensa così, ma non devo spiegare io cos’è l’arte e cosa facciamo, ci mancherebbe.