AGI - Erano quattro anni che Caparezza non saliva su un palco per un live, questo forse perché, davvero sconfitto dall’acufene come si è scritto nei giorni scorsi, gli è sfuggito che ormai si esce necessariamente a scadenza mensile, che gli album non hanno più alcun significato, che si deve costantemente far sentire la presenza alla discografia pungolandola di tanto in tanto con singoletti che verranno dimenticati un quarto d’ora dopo; perché questo è il mercato oggi.
Evidentemente l’acufene ha sconfitto Caparezza, perché lui, in barba a questi nuovi drammatici meccanismi, un anno fa ha pubblicato un disco, “Exuvia”, che lo pone ancora una volta lontano anni luce dalla musica che gira, che va, che procede indisturbata come un Attila al contrario, ovvero dove passa lei l’unica cosa che continua a esistere è proprio l’erba (è sottile, ci arriverete).
“Exuvia”, un disco meraviglioso in cui il rap diventa mero linguaggio per far stiracchiare il cantautorato impegnato, di concetto, quello che ti illumina, che ti mostra nuove strade per far correre il pensiero, che ti annienta e ti ricostruisce, che riscrive le regole, le priorità, i connotati della tua personalissima visione della vita e del mondo e del loro profondo ed insulso e gioioso senso.
Che non è una roba facile per chi soffre l’acufene, ma Caparezza da quell’orecchio non ci vuole sentire (questa è più immediata) e, come un qualunque calabrone, vola senza sapere di non poter volare, regala attimi di sbrilluccicante introspezione in un mondo sempre più distratto dalle luci stroboscopiche del nulla.
Ok, a scanso di equivoci, Caparezza soffre effettivamente di acufene, ma è ben lontano dal ritiro dalle scene, anzi la data del tour di “Exuvia” alla quale abbiamo assistito, la seconda del percorso, ci dice esattamente il contrario, che è ancora quel saltimbanco intellettuale e ipnotico che è sempre stato. Anzi, forse anche di più.
Lo spettacolo al quale assistiamo (e assisterà chi si concederà il regalo di andarlo a vedere) al Sequoie Music Park di Bologna, ha nettamente i tratti della piece; Caparezza entra a bordo di un letto composto di rovi, come se fosse un rifugio nella sua foresta, lo trascinano da un lato all’altro del palco loschi ed eterei figuri, fantasmi danzanti sulle note di “Canthology” che ci accolgono nella sua intima selva oscura.
La drammaturgia che il rapper di Molfetta propone è chiara: prima ti accoglie nel suo mondo, te lo apparecchia, te lo colora, te lo disegna, poi ti spiega come uscirne fuori, liberandosi di quel passato che condiziona come nient’altro. La metamorfosi di Caparezza viene rappresentata in scena con la corazza di una lumaca, dalla quale si divincola, pronto per affrontare ciò che lo aspetta.
Caparezza pensa a una messa in scena coreografica e scenografica per ogni singola canzone, un dispendio di energie enorme, ma non solo, un’ampia dimostrazione della volontà di voler lasciare qualcosa a chi ha pagato il biglietto, qualcosa che vada oltre l’intrattenimento, oltre la propria arte, oltre se stesso; così prosegue tra citazioni alte, smontate della propria matrice intellettuale con un sarcasmo puro, pungente, irresistibile.
Una mano meccanica che lo insegue, metafora particolarmente efficace su quanto l’arte debba sfuggire alle grinfie della tecnologia, e poi ancora la spiegazione degli esordi di Van Gogh, dell’Orlando Furioso e un grido, tra i tanti, deciso, inequivocabile, definitivo, sul finire di “Eyes Wide Shut”, brano che riprende le atmosfere dell’omonimo film di Kubrick: “Art Is Better Than Life”; che non ha bisogno né di traduzione né di spiegazione.
Entrare nel mondo di Caparezza non vuol dire semplicemente fare un giro panoramico dei suoi brani, perché è stato scritto questo o quello, come, dove o quando; con quella presunzione maniacale, quell’umiltà made in China che in realtà altro non è che, al contrario, autocelebrazione ai limiti della perversione erotica.
No, entrare nel mondo di Caparezza vuol dire comprendere a pieno da dove nasce tale meravigliosa delicatezza, per esempio dall’idea, rivoluzionaria, illuminante, che la scrittura sia la più grande invenzione dell'umanità. Sbem. Ha ragione. Così Capa non ha bisogno di spiegarti com’è che nasce la sua scrittura, ma ti spiega come la tratta lui con quale sapiente artigianalità e rispetto, così poi da dove nascono certe canzoni, così significative, a tratti così commoventi, viene in mente “La certa”, un pezzo che ti smonta la mascella, che ti invade il cuore, che ti strappa in due la schiena, te lo spieghi da solo, anzi, nemmeno diventa poi così importante; così come non è mai importante da dove arriva l’onda che ti sommerge, sei comunque costretto a surfarla o annegare.
Caparezza ha ragione, sempre, come i fessi, che sono fessi proprio perché si intascano quella ragione così contraddittoria rispetto alle regole che comandano il mondo e si defilano nella propria poesia, tenuti lontani da posizioni disturbanti, un modo come un altro che ci siamo inventati per smontare qualsiasi attentato allo status quo.
Ecco, Caparezza in questo senso è un fesso e ha celato questo scrigno di ragione nei suoi brani, così un suo concerto diventa anche un comizio filosofico e politico (nel senso più nobile del termine, è ovvio), e tu ti ritrovi a pensare che il mondo girerebbe dalla parte giusta se tutti ci fermassimo ad ascoltare Caparezza, anzi, di più, fosse possibile lo voteresti. “Abbiamo fede in noi stessi – per esempio, dice ad un certo punto dello spettacolo - ma non fiducia, che ha un presupposto critico. La fede è cieca”, il che non è un monologhetto che lo aiuta, come un ponte fatto coi Lego, a passare da un pezzo all’altro, ma qualcosa che, riflettendoci (e su questo, con garbo e piacevolezza, Capa ti mette alle strette) ti accende su ogni minimo aspetto della tua esistenza, così come Spinoza, che è uno morto 345 anni fa, ti fa riflettere su cose che 345 anni fa nemmeno erano pensabili.
Che poi è un upgrade rispetto alla natura stessa del rap, un genere che celebra la parola, il pensiero, e attraverso questi si riusciva a fare a pezzi le storture di una società sbagliata e che oggi non è più dritta di quando il genere è stato concepito. E allora ti chiedi che cosa sia successo al rap, perché Caparezza, così come potremmo citare Willie Peyote, Rancore, Murubutu, sono rimasti fuori dal rap game, fuori dal giro che domina le classifiche, fuori dal clan dei Guè, ormai vate di questo movimento di duri e puri plastificati, artisti (anche bravi, intendiamoci) che ti riempiono la testa di frottole delle quali non ti farai niente un minuto dopo.
Istintivamente torna in mente quella scena di “Ovosodo”, perla di Paolo Virzì, quando il giovane Piero, per spiegare le dinamiche del proprio quartiere popolare ammette: “Un congiuntivo in più, un dubbio esistenziale di troppo e venivi bollato per sempre come finocchio”. Ecco, sarà questo machismo da quarta elementare a dettare le regole? E forse proprio per questo il rap oggi, perlomeno nella concezione più mainstream, è roba da ragazzini?
Caparezza è un’altra cosa, gioca un altro campionato, fortunatamente le sue hit (che comunque erano colme di contenuti, alle volte addirittura drammatiche, tipo “Vengo dalla luna” o “Vieni a ballare in Puglia”) gli hanno garantito la libertà oggi di viversi serenamente la propria maturità (dell’anima, non di età, a 48 anni ancora se la saltella ancora felicemente come un grillo punk); la libertà di esplorare ogni angolo della propria visione musicale, sociale e poetica.
Attenzione, tutto questo groviglio di concetti sul palco si scioglie in una festa assoluta, in un sold out di gioia condivisa, il pubblico impazzisce, balla, salta e poga (si poga e poga tanto) come se non riuscisse a contenere dentro di sé tutto quello che Caparezza comunica, ondeggia tarantolato come se fosse in crisi d’astinenza di profondità, di poesia, di quella parola, quella canzone, che punta dritto al cuore e solo in quel meraviglioso dolore può trovare pace.
Molti artisti parlano di rock e punk e rap scambiandoli per una scusa per fare gli spacconi, denudandoli il più possibile del proprio significato, dando per scontato che il pubblico non voglia sentire niente, che non abbia bisogno di niente, che voglia limonare un vuoto cosmico, che abbia solo voglia di riflettersi per due minuti in uno di quegli specchi falsi che ti ritraggono più macho macho di quello che sei e di quella bugia sorridere beoti.
Una roba che rende il giochino rap facile facile per le superstar del genere, e più lo dicono e più lo pensano e più lo pensano e più lo producono e più lo producono e più lo propinano e più lo propinano e più le discografiche lo spingono e più le discografiche spingono questa roba e meno avranno disponibilità economica e interesse a spingerne altra, magari vagamente più profonda; ed è così che il mercato musicale viene ingoiato in un imbuto di indecenza fine a sé stessa. Come se il contenuto sia il nemico dell’intrattenimento, come se dire qualcosa elimini automaticamente la voglia di ascoltarla, come se la qualità uccida lo spasso; un concetto pericoloso che ci porterà ad una discografia che andrà avanti a suon di spot come nel futuro distopico di “Demolition Man”.
Fortunatamente c’è Caparezza, che in questo tour, sul palco, rincorre la propria personalità, sé stesso, la sua essenza più autentica e crea un mondo, una geografia, così enorme, imponente, che è un non luogo in cui tutti possiamo ritrovarci. Per fortuna c’è Caparezza che sul palco celebra il Dio Cicala, il Dio del cambiamento, in un rito musicale intrigante che non vuole raccontare della rivoluzione di un artista che fa parte della nostra cultura pop da oltre vent’anni, quindi fisiologicamente diverso da quello di “?!”, e ci mancherebbe; vuole invece invitarci a riflettere sul significato del cambiamento, sull’importanza del cambiamento, sul fatto che il cambiamento è elemento fondamentale della nostra (sua) crescita spirituale, l’unica che conta in un mondo di numeri che atterriscono, appiattiscono, deprimono ogni singolo colore, ogni forma di pensiero controcorrente.
Ciò fa di Caparezza un artista eccezionale e di questo suo show un appuntamento necessario, un rito collettivo dentro il quale, ballando, cantando, saltando, urlando, in mezzo ad un oceano di tuoi simili, divertendoti fino a perdere il fiato, a farti bruciare i muscoli delle cosce, trovi anche un pezzettino di te stesso, di ciò che in quel flusso continuo di input, immagini e pensieri, ti eri dimenticato. Una festa, una messa, teatro, psicodramma, un atto di gioia surreale e assoluta; questo è ciò che resta nel cuore, ancor prima che in altre parti del corpo, dopo il live di Caparezza. Che si conclude, certamente non a caso, con gli ultimi versi di “Fuori dal tunnel”: “Si vive di ricordi, signori, e di giochi/Di abbracci sinceri, di baci e di fuochi/Di tutti i momenti, tristi e divertenti/E non di momenti tristemente divertenti”. Ecco, appunto.