AGI - Lo splendido debutto solista del cantante degli Ex-Otago ci fa capire prima di tutto il motivo per cui il cantante degli Ex-Otago avesse bisogno di incidere questo disco, quale urgenza artistica lo ha spinto a ritagliarsi questo spazio di intimità praticamente assoluta. Carucci vomita fuori angosce e gioie con la stessa identità, viaggia attraverso sound diversi tenuti in sintonia dalla profondità della sua voce e quella voglia, incontrastabile, di raccontare; come nella meravigliosa “Genova anni 90”. È un disco che sa essere etereo e divertente, che orbita intorno alla testa e serve impegno per seguire in ogni sfaccettatura. Si sente in maniera evidente il passaggio dalle produzioni fatte in casa dello stesso Carucci a quelle dei bravissimi Mamakas o del maestro del pop Matteo Cantaluppi, ma non disturba, anzi, offre spunti, gioca sulla varietà e alla fine dell’ascolto del disco ci si sente decisamente più pieni.
Ci racconti questa necessità così intima di incidere un disco da solista?
È abbastanza bizzarro come processo, però non ho mai pensato di fare un disco. Ho scritto delle canzoni, che non sapevo bene dove potessero finire, e poi mi sono reso conto, tardissimo, solo qualche mese fa, che forse la cosa migliore da fare sarebbe stata uscire come Maurizio Carucci, non tanto per qualche screzio con gli Otaghi, ma proprio perché erano canzoni che non potevano finire da nessun’altra parte, mi sono reso conto che così com’erano e come volevano diventare e volevo che rimanessero, non potevano andare da nessuna parte. Negli ultimi tempi avevo un po' perso il ricordo del perché mi ero avvicinato alla musica, ormai 25 anni fa, e grazie a questo disco è tornata la memoria. Anche perchè questo disco, di fatto, mi ha un po' salvato, io ho passato una crisi molto forte, complice anche la perdita di un mio caro amico, la situazione sociale devastante, insomma nuovamente la musica mi ha dato la possibilità di tornare a trovare un mio equilibrio, e non si chiama “Respiro” per caso.
Sei riuscito a creare un’opera nella quale ti distacchi molto sotto tutti i punti di vista, dal lavoro con gli Ex-Otago. Ci hai fatto particolarmente attenzione o è stata una conseguenza naturale?
Io non mi rendo minimamente mai conto, non ho proprio la padronanza di questa cosa. Mi fa piacere, perché vuol dire che gli Ex-Otago si contraddistinguono, sicuramente quello è un progetto più morbido, più fruibile, più trasversale, più per tutti, ed è giusto ed è bello che sia così, perché è un insieme di anime che si uniscono per formare questo essere chiamato Ex-Otago. Il mio progetto è molto più radicale, ha più angoli, molte più estremità, nel bene, ma anche nel male, io in questo momento questo sono, volevo fare questo e questo ho fatto. Con gli Otaghi, con cui mi sto già vedendo in maniera più continuativa, faremo dell’altro e faremo gli Ex-Otago, perché questo siamo. Però non ci ho fatto caso, è veramente un disco che è stato fatto senza un calcolo che sia uno, quello che è successo è successo ed è uscito, perché quello volevo fare.
Qual è invece il ragionamento riguardo la produzione? Hai chiamato i Mamakas, hai chiamato Cantaluppi, volevi offrire una sorta di varietà di suono?
Si, anche perché io sono una persona che tende verso il pop, quasi come mission, per me è una cosa bella il pop, è un ponte. Io so di non esserlo sempre, per carità, nel disco si sentono anche dei lati meno pop, però essendo qualcosa al quale ambisco, come fosse un orizzonte, a volte mi faccio aiutare. Cantaluppi per esempio in questo è stato un gigante, ha reso il pezzo molto più per tutti e per me essere per tutti rimane un valore, non è che fuggo da questa condizione. A patto che sia un processo che venga dopo, non calcolato.
Tempo fa avevi fatto intuire che il rapporto con la musica fosse cambiato, un po' in crisi…poi a distanza di poco esce un disco così ispirato. Qual è il tuo rapporto con la musica adesso?
Sembra che io abbia fatto un po' pace con la musica; sono sempre stato un po' in conflitto, perché ho una parte dell’anima molto concreta che litiga con quella più astratta. Io viaggio sempre su più binari, in tutto, mi sento montanaro e vivo sui monti, ma mi sento anche attaccato al mare, questo mio dualismo, questo mio modo di stare dentro alle cose si ripercuote su tutto, ma d’altra parte è la mia natura. Ho fatto pace con la musica perché effettivamente mi sono messo il cuore in pace, mi sono detto “Maurizio, tu sei anche un musicista, sei un uomo dei monti, della natura, ma sei anche un musicista” quindi questo disco mi è servito per confermare questo fatto e posizionarmi, avevo bisogno di posizionarmi nel mondo, era una questione di benessere psicologico.
Quale ti piacerebbe che fosse l’effetto di questo disco su chi ascolta?
Che sia utile. Tutto quello che mi riguarda, che sia una parola, un ragionamento, un vino, un progetto, mi piace che sia utile. Utile non vuol dire che sia iperconcreto, materiale, che però offra qualche spunto, che sia un ragionamento, una scelta, un pensiero, un’azione. Ecco, se “Respiro” potesse in qualche modo aiutare o essere di ispirazione, queste sono le cose che più mi premono e alle quali tengo di più. Ovviamente mi piacerebbe che questo disco in qualche modo vivesse, sai, non tutta la musica ha vita lunga, e invece mi piacerebbe che questo disco avesse una vita lunga, come se fosse un caro parente.
Su Instagram scrivi che Respiro è “merda e oro”…
Partiamo dal fatto che io non sono un bravo “social man”, non sono per niente bravo, mi sto impegnando tanto, perché mi rendo conto che è importante, ma non so quanto successo ho su questo fronte. Non amo autoincensarmi quindi sicuramente c’è della merda, perché la percepisco, perché è un mio disco autentico, sono io dalla a alla z e anch’io ho un po' di merda, come tutti, e forse negli anni ho scoperto di avere un po' di oro, però ogni tanto ricordarselo può essere utile, almeno per me.
Poi scrivi anche “Se esiste un dio ha le foglie”, secondo me questo è un disco molto spirituale e tu sei una persona in cerca di certe risposte, hai deciso di lasciare la città, mi viene in mente anche il tuo viaggio in bici fino in Puglia, che è diventato un bellissimo podcast. A che punto è questa ricerca e come si colloca questo disco in questa ricerca?
Intanto il titolo in qualche modo suggerisce già un fermento spirituale che si trova nel disco. Io, non so tu, non so gli altri, mi sento una persona estremamente spirituale, sono molto fedele, non ho una religione chiara, identificata, credo nelle montagne, nell’aria, nel mare, negli artisti…però io prego e questo disco in qualche modo è una preghiera.
Che fine ha fatto l’indie?
È un tema che mi appassiona molto, perché io ci sono dentro fino al collo in questa centrifugona. Io non so che fine abbia fatto, non so se tornerà, boh…in questi due anni è cambiato tutto, mi pare che non ci sia più l’indie, infatti sarà molto interessante e molto divertente capire gli Otaghi in che panorama musicale arriveranno. L’ultima cosa che abbiamo fatto è stata il palazzetto a Genova due anni fa e due anni non sono nemmeno tanti, però in questi due anni a me pare che la musica italiana sia cambiata molto. Ma anche il mio progetto, boh, non so do ve si colloca.
Non sali sul palco da due anni, questo è dovuto alla pausa che vi siete presi con gli Ex-Otago ma anche a causa delle restrizioni per la crisi sanitaria. A questo proposito, la musica è forse il settore più colpito dalle scelte del governo, tu hai avuto modo, ora che si sta tornando alla normalità, di tirare le somme e farti un’idea sulla considerazione che le istituzioni hanno di te come lavoratore dello spettacolo?
Me la sono fatta ovviamente. Eh, ma è figlia del tempo, come se la cultura e l’arte fossero quasi superflue. Poi io con grande onestà devo dire che non ho le competenze mediche, scientifiche, la situazione è stata sicuramente molto grave ma è altrettanto sicuro che è stata gestita male la questione delle chiusure dei luoghi pubblici dell’arte. Questi due anni qua andranno dritti dritti nei libri di scuole, io sono un po' cambiato, sto lavorando per non diventare un disilluso, perché detesto i disillusi. Ci siamo tutti resi conto che per il nostro sistema, la nostra società, l’arte rimane una possibilità secondaria e che non è una necessità primaria per le persone e questa è un’emerita cavolata. Fai andare avanti un popolo senza arte e senza cultura per un anno o due e poi vediamo quello che succede.