AGI - L’ottimo singolo di Ghali e l’ottimo disco di Lazza bilanciano il pessimo disco di Rocco Hunt e il pessimo disco di sangiovanni. Fuori anche Willie Peyote che con il supporto della comica Michela Giraud propone una rivoluzione all’insegna dei “Fare schifo”; geniale, come al solito. Divertente Clementino, come al solito teneri gli Eugenio in Via Di Gioia che dedicano una canzone alla Terra. Si Galeffi, ni Matteo Bocelli, bravi i napoletani Nicola Siciliano e Peppe Soks, mentre torna trionfalmente il rock politicamente impegnato di Pierpaolo Capovilla (Teatro Degli Orrori) con il suo nuovo progetto: i Cattivi Maestri. Chicca della settimana: “Invisibile” di Marta Tenaglia.
Ghali – “Walo”: è chiaro che ascoltando questo singolo la prima cosa che salta alle orecchie è il riferimento sonoro alle origini di Ghali, che rappa in italiano su un sound di matrice quasi world. Noi invece abbiamo l’impressione che le sonorità fungano quasi da metafora, che siano un accenno concettuale alle proprie radici, ma che la cosa più interessante sia la spregiudicatezza di Ghali nel proporre, come primo singolo che anticipa il nuovo album, un brano molto molto complesso, confezionato con un’intenzione quasi intellettuale. Il risultato, manco a dirlo, è quello che ci si aspetta da Ghali: un pezzo d’alta scuola che dimostra come anche chi esercita un genere legato all’urban può chiedere di più a se stesso, può provare a spingersi più in là della proprio comfort zone. Che gli artisti veri non hanno bisogno di tirare la gonna del mercato, fanno quello che devono al proprio talento, quello che li ha guidati al successo quando non esisteva neanche l’idea di proporsi ad un mercato. Ghali in questo, guardando anche con che idea i suoi colleghi propongono la propria roba, è spregiudicato, praticamente un eroe. E a noi ci piacciono gli eroi. Rocco Hunt feat. Omar Montes – “Solo quiero dedicarte”: Abbiamo ascoltato questo brano, fino alla fine, per buttare giù questa recensione; bene, è talmente brutto in tutta la sua sfacciata volgarità latin in direzione tormentone estivo che, in tutta onestà, proprio col cuore in mano, l’idea di sentirlo ovunque quando il caldo diventerà caldissimo, perché è quello che accadrà, letteralmente, ci terrorizza fino quasi a pietrificarci.
Rocco Hunt lo conosciamo, ormai dopo le oscene capriole spagnoleggianti insieme ad Ana Mena degli ultimi anni, ci ha preso gusto, il sospetto è che ce lo ritroveremo ogni estate esattamente in questo punto, forse finchè qualcuno non deciderà di sculacciarlo con un disco dei Run DMC.
Omar Montes, giusto per spiegare di cosa stiamo parlando, è un ex pugile spagnolo ricicciato dalle versioni spagnole de’”L’isola dei famosi” e il “Grande Fratello Vip”; ci piacerebbe offrirvi un corrispettivo italiano per farvi rendere meglio di quale insulso prodottino stiamo parlando, ma abbiamo deciso nella vita di rinunciare alla tv spazzatura per farci del male in modo più interessante. Il brano, tra l’altro scritto insieme a J-AX e Federica Abbate, è di una bruttezza epocale, nel senso che è talmente brutto che potrebbe passare alla storia insieme al nazismo, il rigore di Baggio in finale di USA ’94, la Duna, il Festival di Yulin e la sveglia il lunedì mattina. Sangiovanni – “Cadere volare”: Visto che, a dispetto di quanti sospettano che ci sia una qualche forma di narcisismo o addirittura malvagità nello scrivere male di un lavoro, in realtà ascoltare e recensire musica brutta altro non fa che deprimerci, intendiamo specificare in partenza che al termine dell’ascolto di questo album ci sentiamo profondamente in imbarazzo. Non solo perché siamo costretti a scrivere male dell’opera (sigh…opera) di un ragazzino con un evidente difetto di pronuncia delle vocali; cosa che potrebbe anche risultare piuttosto ilare se non fosse che il suddetto ragazzino canta e la suddetta opera (sigh…opera) è appunto un disco; ma anche perché, dobbiamo candidamente ammetterlo, in ormai diversi anni che teniamo questa rubrica, difficilmente ci è capitato di ascoltare un disco più brutto di questo “Cadere volare”. Saremmo curiosi di sbirciare e scoprire tutti i passaggi della realizzazione di questo album, per capire, per esempio, sotto quanti nasi è passato.
Quante persone hanno detto “Si, ok, bello, va bene così”? E come si fa ad approvare versi tipo “Se ti metto il cuore rosso vuol dire che ti amo/se ti metto il cuore bianco vuol dire siamo amici/se ti metto il cuore nero, allora che vuol dire?/Che non sono razzista o ti amo dolcemente”? E quale sarebbe il senso di mettere insieme un artista così evidentemente impreparato, con un materiale così povero, a lavorare con producer del calibro di DRD o Takagi&Ketra, se non quello lato sangiovanni (e relativo team, è chiaro) di appiccicare un sound che funziona su una figurina televisiva, e lato DRD e Takagi&Ketra di pagare il mutuo? È musica questa? È questo quello che pretendiamo dalla musica? Che sia intrattenimento a buon mercato fornito agli show televisivi in un mischione puzzolente e deprimente di stream e share? Che fine hanno fatto il conforto, la traduzione artistica dei nostri sentimenti muti, l’entusiasmo per una composizione illuminante, l’arricchimento del nostro intimo patrimonio umano, l’impegno, l’introspezione, l’arte perdio?! E, attenzione, il povero sangiovanni non c’entra nulla, perché da un diciannovenne senza alcuna esperienza, se non quella televisiva, catapultato violentemente dentro lo showbiz armato solo di un bel faccino, cosa vuoi pretendere? Cosa ti aspetti se non testi indegni anche del gruppo WhatsApp del Fantacalcio?
Quindi ci perdoni quell’oceano di bambine ancora vergini di musica degna di questo nome, ci perdonino le casalinghe annoiate ipnotizzate dalle proprie perverse fantasie da schermo piatto, ci perdoni anche sua santità Maria De Filippi, anche lei innocente, dato che il suo mestiere è fare la televisione e la fa benissimo, anche se di fatto impacchetta cinicamente i sogni di poveri incoscienti sventurati, spesso ignorantelli, per rivenderli al pubblico; ma stiamo parlando di un disastro totale, di un disco che purtroppo, data la matrice del successo di Sangiovanni, andrà benissimo, rappresentando proprio una sorta di Chernobyl del mercato musicale. Quindi non solo un semplice disco brutto, ma un disco che abbasserà ancora e notevolmente le pretese della più grande fetta del pubblico, i giovanissimi, e magari convincerà chi vuole approcciarsi a questo mestiere che non serve ispirazione o talento, che una sessione in palestra o dal parrucchiere serve più che una sessione in sala prove, che essere videogenico sia più utile di essere intonato.
E, attenzione, nemmeno potremo dargli torto, perché sangiovanni è lì, mentre tanti bravissimi cantautori, mossi da autentica passione, autentico talento, sono nelle loro camerette, a guardare il soffitto, magari aggiornando il profilo Spotify in attesa che gli ascolti salgano, in attesa di un commento, un ascolto, un’apertura, un ingaggio dignitoso, una svolta, diamine!, una possibilità. Tutto questo è ingiusto e chiunque ci tenga alla musica, chiunque abbia ricevuto qualcosa dalla musica, e intendiamo la musica fatta bene, dovrebbe ribellarsi allo scempio orchestrato dall’industria discografica al solo scopo di vendervi un prodotto scadente, forte di un successo che con la musica non ha niente a che vedere.
La musica trattata e venduta come se fosse detersivo per piatti al limone, un cacciavite elettrico, un set di lenzuola dalle fantasie sgargianti, né più né meno di una merce. È evidente che sangiovanni ci crede, è un ragazzino che vive un sogno, evidentemente nemmeno si rende conto di come la sua figura sia manipolata, anche perché è questa la drammaturgia che vogliono venderci: la storia del giovane che ce la fa. Ma quando poi ce l’ha fatta, ha raggiunto la notorietà, una valanga di followers, le copertine delle riviste, gli articoli sui siti di gossip, perché questa è la loro idea di farcela; come finisce la storia se non ha qualcosa in mano che possa restare, che sia anche lontanamente proponibile? Semplice: finisce. La storia semplicemente finisce. Com’è finita per i Marco Carta e per i Valerio Scanu, che ai tempi furono ugualmente osannati fino addirittura alla vergognosa vittoria del Festival di Sanremo, salvo poi essere sotterrati negli abissi degli archivi Mediaset. Una linea sottile divide il sempliciotto dall’offensivo, “Cadere volare” casca con entrambi i piedi nella seconda metà considerata. Lazza – “Sirio”: Lazza è ormai uno dei nomi del rap italiano, titolo che si è straconquistato sul campo, la sua capacità di strutturare le doppie rime, la tecnica, l’ispirazione, la preparazione musicale da pianista, non potevano che portarlo lì dov’è, dentro un ambiente, quello del rap, che lascia molto spesso troppo spazio ad un pressapochismo che ingolfa inutilmente il mercato; ma questa è un’altra storia. Ci sta dunque che Lazza in “Sirio”, suo nuovo disco, senza snaturarsi, provi a saltare più in alto, a provare a rendersi più pop, termine da cui filtriamo le maldicenze specificando che intendiamo proprio “popolare”. Così “Sirio” risulta un disco vagamente schizofrenico, Lazza c’è ed è anche in buona forma, l’“Ouv3rture” del disco, per dire, nella quale rappa sul “Notturno in Do diesis minore” di Chopin per poi sfociare, quasi rabbiosamente, sulla produzione del genietto Low Kidd (insieme a Drillionaire alla direzione artistica del progetto) è semplicemente meravigliosa, un pezzo che dimostra, con un colpo di tacco, quanto il rap possa facilmente accostarsi a quella che il pubblico generalista considera arte, come se il rap fosse un giochino da ragazzini.
Ma non è così e ascoltare “Sirio” in questo senso potrebbe aiutare a sfatare qualche cliché legato al genere e all’artigianalità che c’è, anche se si vede meno; Lazza nel disco infatti sperimenta, affronta argomenti in maniera diretta, con il linguaggio che più e meglio gli confà, un linguaggio che, a dispetto di quanto i più possano pensare, alla faccia della pochezza e volgarità che si suppone presuntuosamente riguardo la scrittura hip hop, diventa lirico ed in certi punti proprio alto. Certo, a Lazza, ma è fisiologico, serve ancora un po' di esperienza, probabilmente proprio di vita, per raggiungere i livelli conscious di Fabri Fibra o Marracash, o anche del “padrino” Salmo, ma dubitiamo che al momento la cosa interessi minimamente il rapper milanese. Per esempio, mentre tanti storceranno il naso riguardo a “Panico”, brano confezionato in featuring con la premiata ditta Takagi&Ketra, che invece è portato a casa con il mestiere che contraddistingue indubbiamente sia Lazza che il duo di producer, noi riteniamo più da maneggio subdiscografico “Piove”, insieme a Sfera Ebbasta, artista cui successo, ancora oggi, a distanza di tempo, fatichiamo (ma tanto) a capire, artista talmente indietro che in realtà fatichiamo (ma tanto) anche a chiamare artista.
Ma piace, anche se, dal punto di vista squisitamente musicale, a uno come Lazza potrebbe giusto allacciare le scarpe; e allora buttato dentro anche lui, a fare massa, a fare audience, a macinare stream. Sinceramente molto meglio vedere il rapper milanese stiracchiare la propria tecnica incrociando le rime in “Topboy” con Noyz Narcos, un altro geniaccio della scena, insieme mettono in piedi uno scambio d’alta scuola. Ma ciò che impressiona in “Sirio”, e non è niente di evidentemente architettato, è questa malinconia di fondo che pervade le atmosfere del disco, che spesso viene coperta dalla preponderanza di un beat o di una barra particolarmente tortuosa e affascinante, ma che poi esce, solcando un percorso che non si può fare a meno di affrontare con un’introspezione che, felicemente, spiazza. Willie Peyote feat. Michela Giraud – “Fare schifo”: Ormai Willie Peyote ci ha abituati a questa voglia e capacità con i suoi pezzi di esprimere un senso che valica in scioltezza i limiti della semplice canzone. Willie Peyote fa molto di più, innanzitutto rappresenta un’intera fetta di persone alle prese ogni giorno con la propria normalità, con il percorso che la vita, il destino, il buon Gesù, dategli voi il nome che vi pare, ha disegnato per loro. Non gli sfortunati, non i medi, non gli ultimi, ma proprio noi: quelli che si possono permettere molto ma non si possono permettere tutto, quelli che di felice in tasca hanno solo qualche colpo di fortuna acchiappato con ebbro entusiasmo, i nostalgici, i liberi pensatori in balìa della propria pigrizia, chi sa quello che andrebbe fatto ma non lo fa mai; noi, insomma. Quindi non dovremmo restare stupiti, se non fosse che non ci siamo mai davvero abituati alla sua eccezionale ironia, al suo scrivere in punta di penna facendo passare messaggi che solo in un suo pezzo appaiono improvvisamente così chiari e incontrovertibili. In questo caso la stupidità di questa folle corsa all’apparenza a tutti i costi, la stima misurata in follower, talmente affannosa che “Fare schifo” fa il giro e diventa roba da rivoluzionari; fregati, regolarmente, è ovvio. Clementino – “ATM”: Un pezzo che è uno spasso e ci restituisce il miglior Clementino possibile, simpatico, irresistibilmente simpatico, dote rara che gli permette non solo di essere irrimediabilmente accattivante, ma anche, semplicemente, di farsi ascoltare. I giochi di parole, le citazioni, alte e basse che siano, costruiscono una specie di puzzle quasi ipnotico, realizzato con la confidenza che ti può concedere giusto un buon amico; e questo pezzo, in questo senso, sembra che Clementino lo abbia scritto sul divano accanto a te. Eugenio In Via Di Gioia – “Terra”: Rendere la tematica ambientalista, troppo spesso propinata in forma di propaganda poco credibile, vagamente spocchiosa e decisamente noiosa, così cool è da illuminati. Infatti questo brano in realtà è proprio una dichiarazione d’amore sincera al nostro pianeta e gli Eugenio in Via Di Gioia la confezionano con una solennità efficace ed insolita, mantenuta con i piedi saldi sulla terra, appunto, da testo e cantato immediati e romanticamente pungenti. Bravissimi. Ensi feat. Massimo Pericolo – “Ho la hit”: Ecco che vuol dire essere meravigliosamente scorretti, mettere in barre parole che risuonano davvero in testa con fastidio, in maniera scomoda, scoordinata, pungente, oscena; ma senza risultare mai violente. Questa si chiama provocazione, ottima provocazione in questo caso, dato che il concetto viene avvolto nella produzione di Crookers, tra i migliori maghi della regia musicale in circolazione. Una bomba di pezzo. Matteo Bocelli feat. Sebastian Yatra – “Un attimo di te”: Tutto, tutto, tutto troppo pulito, troppo preciso, troppo accessibile per colpirci, per farci sobbalzare dalla sedia. Il giovane Bocelli ha il merito di essersi immischiato in un gioco per lui assai pericoloso da reggere, non solo perché il padre fa lo stesso mestiere, ma soprattutto perché il padre è uno dei più acclamati al mondo in quel mestiere. Chiaro che il prodotto risulta facilmente vendibile, c’è il cognome, c’è il bell’aspetto, c’è la storia, la trama, la drammaturgia, il figlio sulle difficili orme del padre, e c’è anche la capacità di cantare e un atteggiamento piuttosto umile nel proporsi. Quello che manca è proprio la ciccia, la macchia di sugo sulla canotta, la forfora sulla giacca, qualcosa che renda tutto ciò un po' più umano, un po' più comprensibile, che superi il “Uh, canta bene, è intonato”, che ormai è una cosa che colpisce giusto le nonne. Anche perché, se ci vien voglia di ascoltare qualcosa che vada oltre, un incanto unico, qualcosa, appunto, di disumano, senza offesa, senza dilungarci in inutili paragoni, mettiamo su papà Andrea. Galeffi – “Divano nostalgia”: Un grido d’aiuto contro la solitudine cantato con la bellezza antica di un tango accennato, perfettamente accarezzato dal tocco dei Mamakas. Galeffi continua a snocciolare brani del suo prossimo nuovo disco, e finora sono tutti ottimi, forse questo ancora più ottimo, ma ve lo assicuriamo, è solo questione di gusti. E continua anche a dimostrarci la feroce volontà di andare oltre se stesso, il modo in cui pubblico e critica lo hanno accolto, felicemente per quello che faceva, uno stile di scrittura sempre profondo e allo stesso tempo sempre esplicito, informale. Nel bene e nel male, questo era necessario affinché il grande giocattolo dell’indie, rivoluzione della quale Galeffi è stato uno dei principali protagonisti, non si rompesse: che gli artisti procedessero in un percorso di maturazione che fosse concettualmente ancora valido ma senza quella pulizia che in molti casi, ahiloro, gli si è rivoltata contro mostrando buchi alle volte difficilmente colmabili. Galeffi no, Galeffi sa esattamente dove vuole andare con la sua musica, e a tutti i costi ce la sta facendo. Pierpaolo Capovilla e i Cattivi Maestri – “Morte ai poveri”: Brano che inaugura il nuovo progetto di Pierpaolo Capovilla, già noto per la militanza ne Il Teatro degli Orrori, band storica del panorama indie di inizio secolo. Torna così il buon vecchio rock sociale, di impegno civico, una scarica di chitarre contro la narrazione di questi anni relativa all’immigrazione, sfociata poi in un odio disumano e inaccettabile che noi, non un determinato gruppo di politici con idiota elettorato a seguito, proprio noi, anche i radical chic da divano più convinti, abbiamo subdolamente accettato con l’indifferenza che compete agli impuri di cuore. Un brano bello, si, ma soprattutto un brano necessario in un mondo in cui la realtà che viviamo è sempre più un diversivo. Fasma – “Ma non erano te”: Il pezzo, che parte come una versione garbata e 2.0 di “Happy Hour” di Ligabue, si sviluppa poi come un brano dei Velvet, una sorta di rock poppizzato e leggero, complicato da sonorità contemporanee. Insomma, un po' un pastrocchio, robetta un po' troppo leggera, passeggera, dimenticabile, anche nei contenuti. Nicola Siciliano – “Ombrello”: Se volete capire in maniera precisa, chirurgica, quanto la lingua napoletana si sposi alla perfezione con le nuove sonorità, basta ascoltare Nicola Siciliano. Il tutto, tra l’altro, senza rinunciare al contenuto, a dire qualcosa, in questo caso, per esempio, quella strana malinconia che prende quando ci troviamo sotto la pioggia con un ombrello in mano, quella sensazione di abbandono, di solitudine, mentre fissiamo le gocce caderci addosso senza bagnarci e scivolare giù a terra. E tu ti senti piccolo piccolo. Bravissimo. Svegliaginevra feat. M.E.R.L.O.T. – “(tutto qua)”: I due giovani bravissimi artisti traducono in musica quella forte sensazione di disagio e quasi fastidio che si prova quando una coppia è agli sgoccioli, come se l’uno si fosse proprio dimenticato della bellezza dell’altro, che poi è la cosa che in fondo strugge più di ogni altra, e ci si comincia a guardare storti, con sospetto e sgradevolezza. Questo gioco a due è fortissimamente strutturato, il brano rappresenta quasi la tregua, la terra di nessuno in cui i due si trovano e tirando le somme ammettono: “Siamo fatti male”. Bravi. Peppe Soks – “Na criatura”: Una notte in totale paranoia, a girarsi e rigirarsi nel letto, tormentato dai pensieri, dal ricordo di lei. “Na criatura” è una bellissima ballad rap, carica di frustrazione, Peppe Socks, uno dei maggiori esponenti della scuola rap napoletana, costruisce quasi un featuring emozionale con se stesso, le barre sono tutte pensieri che riaffiorano come bollicine in un acqua che sta per bollire. Brano davvero molto molto interessante. Marta Tenaglia – “Invisibile”: L’invisibilità vista da un’angolazione del tutto inedita, il raggiungimento di una pace interiore talmente stabile, magari arrivata subito dopo un insopportabile tormento, da sentirsi dissolti, trasparenti, evaporati. Marta Tenaglia propone un’altra perla di pezzo, perla che la conferma come una delle più interessanti nuove voci del pop femminile; una valutazione inequivocabile, perché la Tenaglia sta sviluppando uno stile del tutto unico, una sensualità che bagna ogni singola sillaba pronunciata, come se le parole dei pezzi ti accarezzassero le labbra in questo affascinante ed ipnotico zigzagare di tonalità, beat ed intenzioni. Wow. Che artista! Young Signorino – “Empty”: Young Signorino racconta qualcosa, perlomeno dopo i primi azzardi, che gli hanno dato visibilità forse più in quanto azzardi che in quanto buoni pezzi (perché proprio non erano dei buoni pezzi), da qualche anno ha deciso di deviare la propria idea di musica verso una narrazione trap emo dal valore altalenante ma dall’onestà stupefacente. Ha qualcosa da dire Young Signorino, qualcosa di profondo e anche tristemente popolare tra molti giovani; questo dannato senso di inadeguatezza, sentirsi addosso le storture del mondo e sentirle così insopportabili sulla propria pelle da decidere, quella tristezza, di celebrarla con il proprio linguaggio. La musica, appunto, che non è sempre e solo una questione di bello o brutto, alle volte può colpire, come in questo caso, semplicemente la brutale e sconcertante e spudorata apertura al proprio pubblico di un artista. Young Signorino si concede, imperfetto, così come è imperfetta la propria visione del mondo; ma la regala così com’è e questo è già un valore. Francesco De Leo feat. Lucia Manca – “Guilty Pleasure”: Questo sound ammiccante, provocatorio, a metà strada tra il cantautorato indie anni ’80 e la colonna sonora di film porno, è tanto interessante e intrigante quanto, ad una certa, vuoto e noioso. Ma è la strada intrapresa da Francesco De Leo, che è un ragazzo molto in gamba, e la scelta del featuring con Lucia Manca è anche azzeccata, perché trattasi di artista dalla grande ed eterea raffinatezza, perfino molto più azzeccata di quella di accompagnarsi a Myss Keta che, artisticamente, consideriamo al pari di una vocalist da discoteca di provincia. Ma purtroppo il brano si trascina fino alla fine con grande fatica. Tancredi – “Isole”: Ah, già. Amalfitano – “Amore”: Il cantato di Amalfitano è ipnotizzante nella sua bellezza antica e definitiva; il cantato, lo abbiamo scritto più volte e continueremo a riscriverlo finchè non diverrà verità conclamata universalmente, più intenso di tutta la musica italiana. Tutta. Ma proprio tutta tutta. “Amore” musicalmente omaggia la storia del nostro cantautorato, ricordando a tutti che abbiamo ferocemente inseguito e recuperato un certo sound detestabile della musica leggera italiana anni ’80 ma ci siamo dimenticati di andarci a rispolverare tutto quello che è venuto prima, decisamente più interessante. Tipo Rino Gaetano, il Battisti post Mogol, tutti artisti che Amalfitano in qualche modo omaggia. “Amore” suona artigianale e meravigliosa, semplice e profonda, come nel nostro immaginario suonerebbe il battito di cuore in un tempo che non c’è più e rimpiangiamo con tutte le nostre forze. Effenberg – “La crisi del mio tempo”: Una critica garbata ma incisiva e precisa al millimetro alla società odierna, in crisi, e quando mai!, ma di valori, non di possibilità; anzi le possibilità di farcela praticamente si moltiplicano giornalmente, ma farcela per arrivare dove? Per ottenere che? Effenberg si conferma cantautore impegnato, quadrato, dipinge con una delicatezza eterea un panorama semplicemente disastroso, un mondo avvelenato dall’agonismo e dall’apparenza. Una sensazione che noi tutti conosciamo a memoria, che ci torna forte, ammettiamolo, ogni volta che scorriamo Instagram, che ci imbamboliamo di reel e stories. Ecco, lui la canta. Metal Carter – “Musica per vincenti”: è naturale che il rap, avendo allargato le proprie braccia al mainstream, oggi proponga una quantità spropositata di presunti artisti che si avventurano con spregiudicatezza in questo campo. Avventure, per l’appunto, che sono diverse dall’amore, lo sappiamo, che a volte hanno dei risvolti catastrofici, nel senso che poi magari riesci a venderti e finisci in classifica senza saper mettere in fila due barre. Ci siamo talmente tanto adagiati su questo dilettantismo ben confezionato che nel rumore costante di sottofondo qualche volta ce lo facciamo anche andar bene. Poi però escono dischi come questo di Metal Carter, per i più smemorati là fuori, uno dei fondatori del mitico TruceKlan, e capisci qual è la differenza. E non stiamo parlando di una questione di valore, perlomeno non solo, stiamo parlando, prima di tutto, di quello di cui parlava Piotta (presente nel disco tra l’altro) verso la fine degli anni ’90, quando cantava “Il rap, chi lo ama e chi lo frega”; nel senso che si ascolta un disco e si capisce qual è l’approccio artistico ad un determinato genere. In “Musica per vincenti” ciò che viene fuori in maniera così netta è proprio l’amore per quello che si sta facendo, death rap in stile splatter: le canzoni come proiettili, le parole il sangue che ci schizza in faccia.