AGI - La musica ci segna, si appiccica alla nostra pelle, alla nostra anima, capace come poche altre manifestazioni dell'arte a modificare il nostro stato d'animo. Ci sta, è da sempre così. L'anno sta finendo e proviamo allora a tirare le somme delle nostre 'vibrazioni' dell'anima: che anno è stato per la musica leggera in Italia? Un gran bell'anno, possiamo dirlo forte, un anno di grandi creazioni e innovazioni. Oltre il mainstream, oltre i talent, oltre le centinaia di concerti saltati a causa della pandemia. Quella che vi proponiamo è la nostra, personalissima classifica dei 50 dischi più interessanti e belli del 2021.
Venerus – “Magica musica”
Nome extraterrestre per musica extraterrestre, che ti piove addosso leggera con una delicatezza del tutto inedita, come se fosse già nell’aria come vapore che respiriamo e servisse solo qualcuno che la sapesse tradurre in musica. Un disco che trasuda amore per la materia, passione ingestibile, irrequieta, sincera.
Giorgio Poi – “Gommapiuma”
Un disco talmente bello da provocarti un vuoto nel petto, uno di quei vuoti pesanti, un lutto, ma sereno, felice, un lutto di pace. Un lampo di genio cantautorale assoluto, non c’è un solo accordo storto, non c’è una sola tonalità sbagliata, una pausa, una virgola, niente. Ti provoca questa sensazione che sta a metà strada tra la pace interiore, quella zen, da nirvana, e una sorta di imbambolamento con un sorrisetto ebete sulla faccia che sbuca fuori senza nemmeno che tu te ne accorga, come se ancor prima delle orecchie i pezzi siano stati assorbiti dalla pelle e dirottati verso cuore e stomaco; e quel sorriso fosse solo un tic di gioia assoluta che si manifesta sulla tua faccia.
Marracash – “Noi, loro, gli altri”
Marracash rimane lì nel cielo, stella cometa di un’intera scena che guarda a lui, a ben ragione, come modello. In questo “Noi, loro, gli altri” il rapper si denuda in maniera totale, mostra le proprie cicatrici senza vergogna, ma soprattutto fa a pezzi la retorica machista che ha infettato tutta una nuova generazione di rapper, canta le proprie malinconie, le proprie incertezze, la propria visione lucidamente sconfortante ma estremamente poetica della vita. Quella che propone in realtà è proprio una celebrazione, che a tratti sa quasi di liturgico, della propria anima; rap orchestrale, magistrale, definitivo, un passo più avanti questo disco c’è un abisso pop, una serie di suoni e parole rigettati in mare come fossero da buttare, il nulla. “Noi, loro, gli altri” è semplicemente e meravigliosamente straziante e Marracash ha un’idea di musica che rappresenta l’avanguardia del rap, sotto ogni punto di vista.
Alessio Bondì – “Maharìa”
Un album che è un capolavoro, Bondì racconta storie di un mondo che riempie con un cuore talmente grande da poterci ospitare tutti. Anche e soprattutto chi non parla il dialetto siciliano, che diventa linguaggio indispensabile, poetica che viaggia libera sul pentagramma e trasforma la bellezza in unicità.
Marco Mengoni – “Materia (Terra)”
Marco Mengoni in questo disco, con una lucidità assoluta, una precisione chirurgica e un’idea chiara, esplora ogni singolo spigolo della propria sincera passione; dentro ci trovate il soul americano, rimasticato con suoni orchestrali e un’interpretazione dei brani non solo emozionante, che gioca su ogni singola minuscola sfumatura del timbro unico della voce di Mengoni, ma anche estremamente nitida. Arriva tutto quello che deve arrivare: il cantautore affronta se stesso, si tratta quasi di un personalissimo studio dell’anatomia della propria anima di artista e di uomo; partendo dal proprio passato, dalle proprie radici, quindi la terra, capire forse il meccanismo che l’ha portato a germogliare in questo e non in un altro modo, la voglia, no, la necessità, di isolare il vociare fisiologico attorno alla propria figura di star, per avere il coraggio di colpire di fioretto proprio al centro delle proprie origini, dove solitamente fa più male, ciò che vogliamo proteggere quando alziamo la guardia.
Caparezza – “Exuvia”
Caparezza torna a fare la parte del ninja che si affila le spade sulla nostra inutile piccolezza di uomini, indaffarati tra ciò che non va come sarebbe giusto e ciò che non va come vorremmo che andasse. Album più cupo, anche evidentemente più maturo, insostituibile, una visione della vita necessaria la sua, anche quando così profondamente intima, anche quando ci rendiamo conto che stavolta non ci sono hit a tirare la carretta, ma storie, ragionamenti, quasi un simposio di emozioni e crude verità, che stanno lì eppure spesso ci sembrano irraggiungibili, fin quando non arriva Caparezza a rapparcele.
Iosonouncane – “Ira”
Iosonouncane è uno dei più illuminati musicisti della nostra epoca, un progetto così intellettuale, eppure così accessibile, così alto, eppure così pop, così centrato, eppure così etereo. “Ira” è un grattacielo di suoni che spunta dalla terra e si moltiplica in altezza nota dopo nota, è un disco maestoso, imponente, romantico, perfetto. Certo, va detto, Iosonouncane impone le regole, se vuoi giocare devi seguirle, ti ci devi buttare senza paura, con impegno, con attenzione, riporta la melodia al suono, la voce allo strumento, vuoto, silenzioso se non pizzicato, i generi musicali all’idea, al gusto, niente di più che un orientamento musicale dalla potenza quasi erotica, inarrestabile.
Colapesce e Dimartino – “I mortali²”
Un vero e proprio regalo, l’incisione di chicche concesse solo a chi ha avuto la fortuna di aver potuto assistere al concerto dei due, la ripresa di canzoni del loro repertorio solista come “Non siamo gli alberi”, “Totale” e “I calendari”, e poi Colapesce che canta Dimartino (“Amore sociale”) e Dimartino che canta Colapesce (“Decadenza e panna”); e poi naturalmente la loro versione di “Povera patria” di Franco Battiato, una vera e propria goduria per le orecchie.
Carmen Consoli – “Volevo fare la rockstar”
Un disco di una bellezza monumentale, brani che nascono da una necessità reale, tangibile, il che rende ogni singolo verso autentico, genuino, definitivo; la cantantessa ci offre, come in realtà rientra nel suo stile, un campionario di immagini che ci spingono verso un passato poetico, epico, abbronzato dalla semplicità, coinvolgente. Storie che vengono da lontano, che Carmen Consoli riporta in vita e risultano splendide agli occhi di chi con lo sguardo dribbla, o almeno ci prova, questo mondo pigro, arraffone e cafone. Tutto allora diventa talmente vivido che all’universo cantato da Carmen Consoli quasi ci si affeziona, “Volevo fare la rockstar” più che un disco è un vero e proprio luogo dove andare a vivere e tutto sembra corretto o correggibile, dove l’essenza romantica della vita diventa la vita, non lascia spazio alle storture di questo disastro che chiamiamo mondo e fa sentire bene.
Salmo – “Flop”
Parole che crepitano in bocca, che rimbombano nella testa con violenza inaudita, brani che sono spinti essenzialmente ed evidentemente da una necessità artistica, si, ma anche sociale. Quello che Salmo offre, certo in rap, che è la sua lingua, è quasi un diario, la fotografia di un segmento di tempo ben definito, barre buttate giù con irruenza, con una ferocia inaudita, come se esplodessero, incapaci di non manifestarsi in un album dalle tonalità molto molto cupe.
Vasco Brondi – “Paesaggio dopo la battaglia”
Un disco che ti scava dentro e che, attenzione, niente paura, è anche forse il più accessibile della carriera di Brondi; un disco che costringe in qualche modo all’introspezione, perché se ti piazzi davanti ad uno specchio e guardi, ci sei tu lì davanti, e alle volte, anche solo per migliorarci, dobbiamo farci i conti con questa cosa, inutile che perdiamo tempo a far finta di abitare in un reggeaton, alle volte dobbiamo spogliarci, ammirarci e odiarci, se vogliamo migliorare. Ecco, “Paesaggio dopo la battaglia” in qualche modo, migliora.
MACE – “Obe”
Il talento di MACE sta nell’utilizzare con talentuosa spietatezza il materiale che ha a disposizione per fare centro con la propria musica, così dentro “Obe” tutti rendono al massimo. MACE con questo disco vuole dire qualcosa, non è il solito galà rap per una raccolta fondi di stream, si tratta di un discorso univoco, coerente, ragionato, in cui il mondo viene osservato sotto un determinato punto di vista e le narrazioni si incastrano tra loro come in un’inestricabile partita di scacchi. Che in fondo questa è la vita, no? Eccezionale.
Fulminacci – “Tante care cose”
Fulminacci ci regala un album strepitoso. In ogni singola canzone si sente pulsare la vita, ci siamo dentro noi, le nostre piccole e misere avventure, che diventano grandi quando vengono declinate in grandi canzoni, e “Tante care cose” di questo genere di canzoni ne è pieno fino all’orlo.
Tropico – “Non esiste amore a Napoli”
Tropico è un fenomeno vero, “Non esiste amore a Napoli” è un disco meraviglioso, perfetto, senza sbavature, che scavalca in agilità i confini del cantautorato al quale ci siamo abituati negli ultimi dieci anni, eliminando quella linea che separa il raffazzonato dell’indie e l’artigianalità del pop ben fatto.
Chiello – “Oceano paradiso”
Un debutto denso di significato per Chiello, che oscilla in assoluta scioltezza tra nostalgiche ballad pop e brani che riportano in maniera più evidente alle sonorità urban. Alla fine quel che ne esce è un ritratto malinconico e preciso, etereo eppure toccante, giovane eppure complesso. Un album in cui i contenuti, seppur forti, vengono bilanciati da un cantato sottile, quasi arrendevole, ma allo stesso tempo ferreo, imponente.
Ditonellapiaga – “Morsi”
Wow. Che disco. Brani, tutti, così cool, così coinvolgenti, cantati con tale intensità, sensualità, carnalità, passione. Si balla, si resta imbambolati dal groove, si riascolta, e poi si riascolta ancora, e poi ancora una volta, poi arriva qualcuno, ti chiede cosa stai ascoltando tutto agitato su quella sedia, e allora riattacchi perché vuoi condividerlo.
Mobrici – “Anche le scimmie cadono dagli alberi”
Non poteva esserci esordio solista migliore per Mobrici, non solo perché questo suo “Anche le scimmie cadono dagli alberi”, elogio all’imperfezione umana di matrice giapponese, è un bellissimo disco, ma perché l’ei fu Canova di suo non ci mette solo cognome e faccia in copertina, fuori, ma, dentro, tutta una condensa di dubbi, incertezze, paure, disavventure, il proprio passato, il futuro che vorrebbe e la forma dell’amore che desidera. Tutto il se stesso del quale dispone insomma, ogni singolo angoletto di umanità, utilizzando una poesia che ti annienta, ti imbambola, ti obbliga alla riflessione. Mobrici in realtà non canta l’amore, ma usa l’amore come mezzo per raccontare se stesso e la propria esistenza, che lo utilizza come unità di misura, come metafora, nemmeno tanto velata, per provare a spiegare i meccanismi di questo motore che ci spinge come palline impazzite da un lato all’altro della vita, rimbalzandoci addosso con un senso che non capiremo mai.
Bluem – “Notte”
Sette brani registrati in sette giorni, chiamati ognuno come un giorno della settimana. Una cosa difficile da credere perché sono tutti brani stupendi e Bluem è letteralmente ipnotica nell’interpretarli.
PFM – “Ho sognato pecore elettriche”
Un disco che suona come i dischi di oggi, in assenza di mestiere e artigianato musicale reale, non suonano più. Quanta delicatezza, quanta precisione, che gusto nel mettere insieme un accordo dopo l’altro; la PFM ci dimostra che il futuro altro non è che un concetto che niente ha a che fare con il tempo, e in questo universo felicemente distopico Franz Di Cioccio e compagnia sono bambini dinanzi ad una bellezza che comunque per mettere in musica serve una mano, una sensibilità, che sono fuori dal comune.
Nayt – “Doom”
Disco meravigliosamente cupo, la fotografia di un disagio, a tratti molto intimo, unico, a tratti coinvolgente, generazionale, democratico se volete, appartenente a tutti, ricollocabile nella stessa aria che respiriamo. “Doom” assottiglia fino quasi a farla scomparire quella linea che divide il rap dal cantautorato impegnato, si tratta di un progetto artistico vero, congeniato, realizzato, evidentemente, con una consapevolezza adulta, centrata, invalicabile.
BLANCO – “Blu Celeste”
BLANCO costruisce un disco in cui il concetto stesso di genere forse sarebbe opportuno fosse messo da parte, un disco in cui la fisiologica immaturità del ragazzo classe 2003 diventa un grido disperato, toccante, coinvolgente, quasi un pianto, senza età; BLANCO non solo ci riporta a quello che abbiamo provato quando avevamo la sua età, ma ci fa venire a galla, come bollicine dell’acqua che bolle dentro una pentola, le emozioni che noi oggi, quasi quarantenni, proviamo. Il suo grido è il nostro, quel cantare come controvento, a voler riempire un vuoto che non ti da pace, è il nostro; e quindi anche la sua vulnerabilità rispetto agli abominevoli ostacoli della vita è la nostra.
Giorgieness – “Mostri”
Che album stupendo, così intenso, eppure così etereo, così morbosamente autentico, eppure così leggero, accessibile, pop. Lei ha una voce ipnotizzante, nel disco ti porta a spasso dove le pare, tra ricordi, rimpianti, analisi di rapporti con l’altro o con se stessi, amori naturalmente, che finiscono, è ovvio, ma anche ai quali ci si arrende, dentro il quale si soffoca o si prende aria e luce. Si passa in un lampo dal pop dal sound vagamente elettronico, minimalista, a quello che si apre per lasciare spazio al cantato più melodico e articolato, e Giorgieness se la gioca in bilico tra una barricata e l’altra del genere in souplesse.
Bianco – “Canzoni che durano solo un momento”
Un album divertente, godibile, in cui viene fuori bene l’unicità di Bianco come cantautore, il suo modo di aprire finestre su storie che ci lascia sbirciare con un retrogusto talmente realistico da diventare quasi voyeuristico. E poi la maturità, certo, il mestiere, la capacità di maneggiare con cura tutto l’apparato musicale mettendo al mondo un disco che si ascolta con estremo piacere, senza pause, senza staccarsi mai, senza stancarsi mai.
Coma_Cose – “Nostralgia”
I Coma_Cose crescono, dal rap poppizzato delle prime uscite, divertente da seguire negli intriganti e genialoidi giochi di parole, al cantautorato puro, moderno, impegnato, di questo “Nostralgia”, in cui ritroviamo Lama e California presi da una poetica più matura, più intimista, e proprio con questo stratagemma ci guidano nel loro labirinto di immagini e romantiche capriole di semplicità.
Neffa – “AmarAmmore”
Non poteva non esserci la parola “Amore” nel titolo di questo disco, perché è evidente che tutto parte da lì. Neffa ritorna dopo anni e canta in napoletano e sforna un piccolo capolavoro, non solo perché composto da canzoni belle, ma perché dalla prima all’ultima nota si materializza nelle nostre orecchie l’ispirazione autentica che ha guidato penna e voce di Neffa.
Tricarico – “Amore dillo senza ridere ma non troppo seriamente”
Troviamo piuttosto eroico il fatto che nel bel mezzo di cotanta bruttura ci sia ancora qualcuno che racconti favole. Tricarico fa questo da sempre, e non sono favole che arrivano da posti lontani, ma da casa nostra, siamo noi, lui ha la capacità, innata, magnifica, eccezionale, di trasformare noi in favole. Così nella sua visione tutto appare ricoperto da una patina di incanto trascinante, poetico, altro, inarrivabile, come in “Mi manchi negli occhi”, che dovrebbe spalancare le finestre anche al più trucido degli esseri viventi.
Cosmo – “La terza estate dell’amore”
Un album politico, una presa di posizione, Cosmo torna sul terreno del clubbing, che è il suo luogo della musica, quello che lo esalta, che lo diverte, che lo rappresenta. Il disco è fantastico, pur mancando di hit alla “L’ultima festa”, ma dimostra come e quanto non importi il genere che fai, ma come lo interpreti, come te lo cuci addosso, quel che hai da dire. E Cosmo in questo è sempre stato bravo, coinvolgente, quasi intellettuale.
La Municipàl – “Per resistere al tuo fianco”
Un disco perfetto, da brividi, un piccolo capolavoro, perfettamente in linea con tutto ciò che La Municipal ha prodotto fino ad oggi, raccogliendo tanto ma estremamente meno di quanto meritasse. Il cantautorato raffinato di Carmine Tundo colora l’immaginazione di chi ascolta, permette viaggi tra i luoghi più extraterrestri della sua Puglia e storie d’amore e umanità che ti scavano dentro un buco grosso in cui è piacevole affogare.
Studio Murena – “Studio Murena”
Jazz e rap si incontrano in uno dei progetti più interessanti mai sentiti negli ultimi anni. Una roba unica in cui, attenzione, il jazz non impreziosisce il rap e il rap non volgarizza il jazz, ma le due forme d’arte si incastrano perfettamente trovando più punti di incontro di quanti mente umana potesse prima immaginare. È un disco che si beve con estrema facilità, che trasuda qualità, se dovessimo tradurlo in un linguaggio da bar sarebbe un buon rum con dell’ottimo cioccolato fondente, i due generi una volta mescolati lasciano quell’intenso e avvolgente sapore in bocca. Letteralmente imperdibile.
Joan Thiele – “Atto I - Memoria del Futuro/ Atto II - Disordinato spazio/ Atto III - L'Errore”
Impossibile ascoltare Joan Thiele senza innamorarsi perdutamente, senza restare imbambolato come dopo il primo bacio con un grande amore. Puro afrodisiaco musicale, interprete eccezionale che porta quel che è sempre stato internazionale qui in Italia. E, sarebbe il caso di dire, finalmente. Tutto adorabile, dal cantato un po' rauco, quasi accennato, alla sensualità delle musiche, ipnotizzanti nel loro comunque essere estremamente accessibili, come un’opera di street art che ci fulmina mentre camminiamo in città, che ferma il tempo, che zittisce il traffico, che ci spedisce altrove, alla ricerca di cosa nemmeno sappiamo. Joan Thiele è una delle cantautrici più innovative che abbiamo in questa Italia che tanto fatica a trovare il binario giusto per rinnovarsi, per andare oltre il già sentito, forse perché il già sentito ci rassicura, o forse perché siamo irrimediabilmente pigri.
Gaia – “Alma”
Un disco raffinato, le parole accarezzano delicatamente lingua e labbra prima di finire nelle nostre orecchie, il sound è smaccatamente internazionale, ma non solo perché cantato in parte in una lingua che non è l’italiano, e non solo perché si tratta di un disco molto contemporaneo. Ma soprattutto perché può suonare bene ovunque, in ogni angolo della terra, perché Gaia artista internazionale proprio ci nasce, è proprio nelle sue corde; ha un’idea ben precisa di dove vuole arrivare con il proprio progetto, non è un caso dunque che “Alma” ne disegni un ritratto totalmente autentico.
Frah Quintale – “Banzai (Lato Arancio)”
Primo progetto discografico in cui il rapper bresciano si lancia con coraggio dentro sonorità che ricordano molto l’R&B. Si tratta di un ottimo lavoro, Frah Quintale, dopo l’esordio a metà strada tra rap e cantautorato indie, lo ritroviamo sempre più maturo, più serio, più centrato. Avrebbe potuto continuare a sfornare hit, invece decide di seguire il lato più romantico della propria essenza di artista, e fa bene, perché mortificare il proprio valore è ingiusto verso se stessi, verso il proprio pubblico e anche verso chi è pagato per scrivere del tuo lavoro. Quindi bravo. Quindi grazie.
Cristina Donà – “deSidera”
Cristina Donà vale di più. In questo nuovo lavoro ci ripropone quella poetica così raffinata, così soffice, eppure sempre così intensa, incisiva. Quel timbro ipnotico, quella giungla di suoni dentro la quale ci si perde senza paura, ma che va affrontata con l’impegno di chi sta cercando qualcosa. Ecco, ascoltare lo straordinario “deSidera”, arrivare fino in fondo a questi dieci straordinari brani di questa straordinaria cantautrice, alla fine, vedrete, vi farà sentire un po' più ricchi.
Erica Mou – “Nature”
Un disco meraviglioso che rispecchia in maniera splendente non solo la bravura della ragazza ma anche la sua anima viandante tra la Puglia, Londra e Milano, la sua continua necessità di ricerca, poetica musicale, di sperimentazione. Erica Mou è brava, raffinata, illuminante, moderna, che tutto sa fare e di tutto è capace. “Nature”, che voi lo leggiate all’italiana o alla francese, resta un disco imperdibile.
Speranza – “L’ultimo a morire (deluxe)”
Speranza spiazza, fa tutto ciò che meno ti aspetti, i suoi pezzi sono funamboliche capriole di parole e sensazioni, sempre perfetti, sempre precisi, sempre azzeccati. Maschera la nostalgia con la rabbia, i dubbi con l’attacco frontale alla vita, è tutto quello che pretendiamo dal rap.
Samuel – “BRIGATABIANCA”
In pratica si tratta di un nuovo esordio, quel “Il codice della bellezza” del 2017 con Samuel c’entra ben poco, quel vacuo pop da classifica (che nemmeno entrò in classifica) ha rischiato di farci credere che Samuel lontano dai suoi Subsonica risultasse monco. Oh, quanto ci saremmo sbagliati, in “BRIGATABIANCA” Samuel insegue solo se stesso, la sua capacità innata e quasi unica di unire il cantautorato a tutto ciò che di tech sia stato ponderato in musica.
Massimo Pericolo – “Solo tutto”
Massimo Pericolo, uno dei rapper più autentici della scena nazionale, lo abbiamo scritto più volte, riesce in scioltezza a tenere le redini del proprio istinto nel vomitare fuori tutti i suoi demoni senza risparmiarcene nemmeno mezzo e, dall’altra parte, a saperceli raccontare con onestà e pura poesia. “Solo tutto” da la stessa sensazione di una mostra di street art, Massimo Pericolo dipinge e spiega la propria realtà, quella della provincia, quella della strada e anche quella di chi è riuscito a togliersi dalla strada ma la porta ancora dentro, perché tutto, ma proprio tutto tutto, è guardato con quegli occhi lì; anche la musica e il relativo successo. La produzione di Phra Crookers smussa gli angoli, “da un tono all’ambiente” direbbe Drugo, ma ciò che più colpisce è la netta sensazione che Massimo Pericolo tiri una linea netta tra chi ha vissuto certe cose e chi può solo starle a guardare, come sonetti di un mondo che non può essere catturato.
Mannarino – “V”
Ascoltando “V” ci rendiamo conto che in realtà Mannarino più che un viaggio offre una via di fuga per lo spirito, un’opzione, la possibilità di surfare la sua musica, quel parlato così intenso, e andare altrove, in posti che sono lontani anni luce dall’elettro flusso inafferrabile che ormai domina le nostre giornate. Posti in cui scorre acqua, vibra il fuoco, suonano i tamburi, esplode la natura, piovono storie che sanno di antichità, di vecchi proverbi, la celebrazione di una tradizione che in fondo è lo stesso Mannarino ad inventarsi, una sorta di new age in cui si fugge dal futile per riunirci semplicemente alla propria essenza, alla propria anima, alla propria natura.
Gazzelle – “Ok”
Gazzelle in “Ok” rinnova la sua capacità innata di riuscire a catturare e mettere in musica il sentimentalismo di un’intera generazione, ma che ci fa pensare, ed è certamente la cosa principale, che dopo “Ok” arriverà altro e probabilmente sarà qualcosa di migliore e più maturo di “Ok”. Così si diventa grandi artisti, con uno stile inconfondibile, confezionando canzoni che abbiano un senso profondo nella vita di chi le ascolta, e mantenendo la concentrazione nell’inseguire sempre la parte migliore di se stessi. “Ok”, ancor più importante di dirci che Gazzelle c’è oggi, ci dice che Gazzelle ci sarà anche domani.
CIMINI – “Pubblicità”
Un album da vero cantautore, otto brani che guardano alla vita attraverso gli occhi di CIMINI, attraverso la sua poetica malinconica eppure sempre così vitale. Tutti pezzi forti, tutti pezzi significativi che, tra l’altro, ci restituiscono un CIMINI non solo in forma ma anche in crescita, in maturazione, in grado di lasciare sul palato quel gusto agrodolce da domenica pomeriggio. Riflessioni profonde raccontate con la leggerezza di chi si guarda intorno accettando la vita per quella che è. Bravissimo.
VillaBanks – “Filtri”
VillaBanks è un rapper plurilingue, frequente durante i brani una sorta di escalation di emozioni che sfociano in uno slang francese che ti tira letteralmente per i capelli. È rap dicevamo, si, ma niente che si ascolti solitamente, parliamo di metriche e produzioni complesse, che segui a tempo con il pugno alzato, giusto per slegare qualcosa dentro il corpo che spinge per esplodere.
Lorenzo Kruger – “Singolarità”
Lorenzo Kruger, a distanza di sei anni, torna da solista con un disco che dimostra ancora una volta quanto lui sia un artista non solo bravo ma del tutto necessario. Kruger ha una delle voci più intriganti di tutta la nostra musica, è autore sopraffino, poetico, commovente, un tantinello folle, quanto basta per farsi amare perdutamente. Bentornato.
Sottotono – “Originali”
Bisogna essere coraggiosi per riproporsi nel mercato discografico più agguerrito della storia dopo due decadi di silenzio. Coraggiosi si, oppure semplicemente musicisti veri, spinti da un progetto concreto, coerente, significativo. “Originali” è un disco eccezionale, quattrodici brani che si alternano tra inediti e rivisitazioni di grand hit del passato di Big Figh e Tormento. I nuovi brani, uno su tutti “Ti bacio ancora mentre dormi”, sono contemporanei, profondi, varcano quel famoso orizzonte del rap all’incrocio con il cantautorato più impegnato. Le nuove versioni di vecchi successi dei Sottotono, in compagnia di alcuni tra i più importanti esponenti della scena rap e pop italiana, sono semplicemente commoventi.
Margherita Vicario – “Bingo”
Divertente, solare, schietto, in “Bingo” non c’è un solo brano sbagliato, non c’è un brano noioso, non c’è un brano che non ti vien voglia di divorare. La Vicario propone una voce femminile nuova e inedita nel panorama musicale italiano, lo fa con stile e coinvolgimento, senza perdere tempo a raccontarsi a tutti i costi, senza piagnucolare gli argomenti, distorcendoli in capriole vocali fini a se stesse. No, tutto quello che aveva da dire, lo dice, senza prenderla larga. Bravissima.
Mahmood – “Ghettolimpo”
Oriente, Occidente, ogni genere di tempo, passato, presente e futuro, remoto, anteriore, inventato dall’uomo, la vittoria, la sconfitta, il perdersi, il ritrovarsi, la semplicità del pop, la complicatezza del rifiutarsi, a ben ragione, di essere incasellato all’ombra di un genere specifico, una specifica categoria di artista. Mahmood non è quello di “Soldi” e non è nemmeno il contrario, è strumento, perfettamente accordato, di se stesso, del proprio bisogno espressivo, aiutato nel fiorire da Dardust; racconta tutto, lo spiattella in versione tartare, ci concede ogni singolo spigolo di se stesso, come se non potesse proprio farne a meno, caratteristica che fa di un artista un artista. “Ghettolimpo” è un ottimo disco, Mahmood capriola mille volte su stesso, sulla propria storia, sul proprio stile, come un mago che fa ogni gioco a rallentatore, con la volontà di farci capire il trucco, un irrefrenabile desiderio di onestà, ma ci stupisce lo stesso, arrivando la magia, sospettiamo, da ciò che è ancor prima che da ciò che fa.
La Rappresentante di Lista – “My Mamma”
Un disco meraviglioso che ci introduce in un universo affascinante, intrigante, quasi erotico, ma soprattutto complesso, in cui le personalità teatrali di Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina vengono fuori in maniera schietta, palese, bellissima.
Madame – “Madame”
Un disco rivoluzionario, come solo il disco di una ragazza di 19 anni può permettersi di essere. È stupefacente la capacità di questa ragazza di portare a sé qualsiasi cosa canti ma, soprattutto, qualsiasi artista canti con lei. Tutti modellati, costretti (felicemente, è ovvio) a tenere il suo passo, a mantenere il suo mood. Stupefacenti sono i testi, stupefacenti sono le intuizioni, stupefacente è la capacità di spalancare finestre su un mondo davvero troppo grande per una ragazza che lo ha vissuto ancora per così poco tempo.
Franco126 – “Multisala”
Franco126 con questo “Multisala” ripesta bene la sua impronta, in modo tale che chiunque gli vada dietro non se lo perda; resta se stesso, quel modo di cantare fintamente disinteressato, strascicato, lento e ipnotizzante, in perfetta sincronia con Roma, della quale è certamente tra i cantori più moderni. Non è un disco inferiore a “Stanza singola”, come molti lamentano, è una crescita portata avanti, giustamente, con la cintura di sicurezza, con calma, senza però tradire alcuna necessità artistica, tant’è che tra i dieci brani del disco ci sono “Che senso ha” o “Miopia”, che possiamo considerare tra i suoi migliori.
Tiromancino – “Ho cambiato tante case”
La casa come non luogo dell’anima, un posto che diventa altro quando cambiano le persone e le sensazioni che lo abitano. Questa è la metafora che Federico Zampaglione utilizza per il suo “Ho cambiato tante case”, per giustificare in qualche modo questa vivace sperimentazione che lo ha portato in un viaggio lungo 12 nuove canzoni ad aggirare ogni spigolo della propria vita. Ambiente, amore, il rapporto con il proprio essere padre, con il proprio essere figlio, con il proprio essere musicista anche, probabilmente nel periodo più complesso della storia moderna per esserlo, fino alla malinconia, ad una spasmodica ricerca di serenità che si irradia su ogni singola nota del disco.
Lamine – “Da soli mai”
Disco eccezionale, da mestierante vera, dove i lampi, i guizzi, le impennate spericolate, si alternano ad una precisione nella produzione che appare quasi maniacale, certamente contemporanea, sottile e allo stesso tempo intensa. A tenere in piedi lo scheletro del disco una voce calda e sensuale, eppure alle volte quasi distaccata, una di quelle voci che hanno la straordinaria capacità di stare allo stesso tempo dentro e fuori il brano. Non un pezzo di questo disco d’esordio ha una nota fuori posto, un neo, un inciampo, una leggera flessione, mai. È un disco perfetto e Lamine è un fenomeno vero.