C esare Cremonini ci fa girovagare a cavallo di un colibrì, Manuel Agnelli scrive due bei pezzi per la colonna sonora del “Diabolik” dei Manetti Bros. Marco Mengoni ci trascina in un universo soul dal quale non vorremmo mai fuggire, il suo “Materia (Terra)” è uno dei migliori dischi dell’anno; e sullo stesso piano mettiamo “Gommapiuma” di Giorgio Poi, un album di una poesia commovente. Fuori anche Coez con un lavoro in cui il rapper romano dal cuore morbido chiude un primo cerchio della sua carriera, sempre a metà strada tra rap e indie. Mezzo flop il duetto tra Rkomi ed Elodie, una bomba totale il nuovo singolo di Mara Sattei, così come quello dei Ministri.
In zona rap, bene Nicola Siciliano e Gianni Bismark, benissimo Murubutu in featuring con Claver Gold e Rancore; un disastro totale la “Marmellata” prodotta da Wayne Santana in collaborazione con Rosa Chemical, Tony Effe e Radical. Magnifico “La cura” di Jack Out e K beezy 28, ma la chicca della settimana è il singolo di Napoleone “Lacrime a mare”.
Cesare Cremonini – “Colibrì”
l volo di un Colibrì è la metafora che Cremonini sceglie di utilizzare per esprimere un bisogno urgente, comune e del tutto sensato, di una botta di poesia che devii questa affannosa corsa verso l’oscurità. Non è una hit, non è nemmeno particolarmente radiofonica, e non è certo detto in forma di critica, anzi, Cremonini è giusto, doveroso verso il suo status di cantautore dall’ossatura solida, che insegua la propria idea di musica sbattendosene di pedinare la musica che va; anche perché, tra l’altro, la sua idea di musica è rara e preziosa, da difendere col coltello tra i denti.
“Colibrì” è un brano complesso, meravigliosamente complesso, in cui variano battiti e atmosfere, ma tutto è tenuto insieme da una capacità di scrittura che è davvero fuori dal normale, anche merito di una sintonia perfetta con Davide Petrella, co-autore del pezzo. Quando il brano si chiude hai l’impressione di aver ascoltato qualcosa di imponente, di valore, “Colibrì” non racconta la trama ma è avvincente come il piano sequenza dell’” L'infernale Quinlan” di Orson Welles; un tocco insomma, un accenno talmente pungente da farti in mille pezzi, una capriola di stile, un regalo.
Manuel Agnelli – “La profondità degli abissi”/”Pam Pum Pam”
Due brani scritti per il “Diabolik” dei Manetti Bros, ma che vivono assolutamente di vita propria. Nel primo Agnelli pesta duro ma riesce splendidamente a tenere le redini della propria idea di una declinazione aulica del rock, quella puramente cantautorale, che poi è da sempre specialità della casa, sorretta dunque da una capacità di scrittura che vive di talento e mestiere. Forse ancora più interessante ”Pam Pum Pam” in cui il frontman degli Afterhours gioca con un sound vintage, orchestrale, definitivo, storia di un amore garbato, dal sapore antico, musicalmente regale, certamente nostalgico e coinvolgente.
Marco Mengoni – “Materia (Terra)”
A primo ascolto si potrebbe pensare che “Materia (Terra)” possa rappresentare una svolta nella sua carriera, ma sarebbe ingeneroso. Non solo perché anche i precedenti album di Mengoni erano degli ottimi lavori, ma perché si rischierebbe di porre in secondo piano il suo sviluppo, quasi come se questo davvero ottimo nuovo album fosse un colpo di fortuna. Non è affatto così: Mengoni riesce in un’impresa straordinaria, specie per chi è così tanto amato dal pubblico, forte non solo del debutto accelerato da X-Factor (anno domini 2009, discograficamente parlando ormai pura preistoria), o della vittoria al Festival di Sanremo che quel successo ha consacrato dinanzi all’Italia tutta, ma di una continua e riuscitissima maturazione, che è la cosa più complessa per qualsiasi artista.
Per riuscirci serve concentrazione e lavoro, si, ma soprattutto è necessaria la capacità, ammettiamolo, quasi extraterrestre, specie in un’era all’insegna di un cieco ed affannoso inseguimento di una popolarità quasi sempre gratuita, di non ubriacarsi di se stessi, non accontentarsi dei risultati raggiunti, anche quando sono evidentemente spettacolari, quelli di Mengoni nello specifico sono veri e propri fuochi d’artificio.
La ricerca musicale parte da lì, da un amore autentico per la materia prima del proprio mestiere: la musica, in faccia a chiunque ti pretenda piegato al mercato, radiofonico fino al midollo, in copertina a tutti i costi. Intendiamoci, “Materia (Terra)” in classifica ci finirà, i due singoli che hanno anticipato l’uscita di questa prima parte di quella che sarà una trilogia hanno già riscosso il dovuto seguito; ma sarebbe bello che anche il largo pubblico cogliesse le sfumature di questa suddetta maturazione dell’artista. La musica serve principalmente a dispensare emozioni, d’accordo, che si faccia parte della categoria “addetti ai lavori” o meno, il meccanismo, nel bene e nel male, è semplice e si può ridurre alla ricerca di semplicissimo sano benessere; ma è importante distinguere l’amore dalle sveltine, esattamente come è importante nella nostra vita di tutti i giorni.
Marco Mengoni in questo disco, con una lucidità assoluta, una precisione chirurgica e un’idea chiara, esplora ogni singolo spigolo della propria sincera passione; dentro ci trovate il soul americano, rimasticato con suoni orchestrali e un’interpretazione dei brani non solo emozionante, che gioca su ogni singola minuscola sfumatura del timbro unico della voce di Mengoni, ma anche estremamente nitida. Arriva tutto quello che deve arrivare: il cantautore affronta se stesso, si tratta quasi di un personalissimo studio dell’anatomia della propria anima di artista e di uomo; partendo dal proprio passato, dalle proprie radici, quindi la terra, capire forse il meccanismo che l’ha portato a germogliare in questo e non in un altro modo, la voglia, no, la necessità, di isolare il vociare fisiologico attorno alla propria figura di star, per avere il coraggio di colpire di fioretto proprio al centro delle proprie origini, dove solitamente fa più male, ciò che vogliamo proteggere quando alziamo la guardia.
Per farlo Mengoni fa tutto meno che lasciare il mondo fuori dalla porta, anzi, si fa accompagnare in questo percorso di autocoscienza da compagni di viaggio che, come Dante nella “Divina Commedia”, possono stargli accanto in un segmento musicale che è sempre ben definito: Purple Disco Machine, al banco regia di “Ma stasera”, trova la chiave di svolta per accelerare i battiti, Gazzelle in “Il meno possibile” fa atterrare il brano in strada, sull’asfalto, bilanciando così il naturale impulso all’etereo quando ce la raccontiamo tra di noi; con Madame, in “Mi fiderò”, Mengoni invece se la spassa, si lascia contagiare dalla brillantezza delle sfumature di colori che la giovanissima rapper è in grado di proporre: rap con una voce dalle tonalità vagamente blues e la penna di un cantautore consumato. Senza dimenticarci di MACE e Venerus, che producono “Cambia un uomo”, che riescono straordinariamente a regalare al brano quell’atmosfera definitiva eppure eterea, distaccata come un esercizio di stile a cui manca solo l’inchino finale e le palette con tutti 10 eppure così incisiva.
E poi ancora Ceri, Taketo Gohara, B-Croma, EDD, un’orchestra di personalità del mondo della tecnica musicale che mettono a disposizione il proprio talento per raccontare quanto di più spirituale l’uomo si sia mai inventato: il passato, i milioni di metri quadri di universo che ci portiamo nel petto, quello straboccare scomposto di sentimenti che a loro piacimento annebbiano e smacchiano il nostro stare al mondo. “Materia (Terra)” è insomma un disco perfetto, non praticamente, sommariamente, parzialmente perfetto. Perfetto. Punto.
Ascoltarlo ti spedisce in un universo altro, un mondo a forma di canzone, dove tutto è musicale, dove le anime svolazzano sospinte dalle note, baciano le nuvole e gli raccontano delle profondità inaudite alle quali si può arrivare se solo, artisticamente, ci si mette in discussione e si lavora, tanto e bene, se si offre al pubblico qualcosa di onesto, poeticamente schietto, impermeabile alle burrasche del tempo. Insomma, quel genere di musica alla quale serve giusto una IPA ghiacciata e uno sgabello, preferibilmente comodo e bello, per sorreggere il peso dei pensieri che quella musica susciterà, che sono spesso pesanti, se si possiede un minimo di decenza, ma necessari per ricordarci ciò che mai dovremmo dimenticare nei pantaloni della festa: la nostra unicità.
Coez – “Volare”
Il rapper romano con questo nuovo lavoro è come se decidesse di incorniciare questa prima fondamentale parte della propria carriera, come se chiudesse un cerchio proponendo brani dentro i quali ritroviamo l’essenza di un artista che si è rivelato fondamentale per la storia del pop contemporaneo.
Coez, il rapper cui successo è stato decretato da un pubblico che con il rap, perlomeno quello duro e puro, c’entra poco o niente, quello della rivoluzione indie, in cerca di un modo nuovo, più efficace, più sincero, di declinare l’amore in musica. Si, perché l’amore è un tema fondamentale della produzione di Coez, dall’altra parte della barricata infatti il rapper romano è riuscito a sdoganare l’argomento in quello che dall’esterno sembrava un club di uomini quasi spaventati dal romanticismo, perduti (molti lo sono ancora) in un labirinto di machismo che alla lunga ci appare anche vagamente plastificato.
Al contrario Coez ha trovato nel proprio sentimentalismo non solo la chiave per il successo, ma proprio quella per far girare al meglio la propria vena creativa, per raccontare se stesso e la propria visione del mondo e delle relazioni umane. E poi, forse punto fondamentale, un modo di fare musica, “poppizzando” il rap o “rappizzando” il pop, è uguale, che ha fatto letteralmente scuola; il mercato odierno infatti, certamente tutte le chart specializzate, è invaso da brani dalle strofe rap e ritornello cantato, non una vera e propria invenzione di Coez ma certamente è lui l’artista che nella discografia moderna, di questo semplice e funzionale modo di costruire i pezzi, ne ha fatto la propria chiave di svolta, infettando un po' tutti i colleghi, che si occupassero di musica rap o di musica pop.
In “Volare” troviamo il Coez che ha orecchio, quello che percepisce perfettamente la necessità del pubblico di accedere armoniosamente ai pezzi, anche quando spinge sull’acceleratore come in “Wu-Tang”, che è il singolo con il quale Silvano Albanese guarda al suo passato più hardcore; poi se lo coccola con “Come nelle canzoni” che chiude una trilogia amorosa cominciata con “La musica non c’è” e proseguita con “è sempre bello”, fino a “Occhi rossi”, che rappresenta l’intenzione di raffinarsi sempre di più, strizzando l’occhio perfino all’R&B. La musica di Coez è probabilmente la più funzionale chiave di volta per spiegare al pubblico ogni singolo particolare della discografia contemporanea.
Rkomi feat. Elodie – “La coda del diavolo”
Rkomi decide di arricchire il suo “Taxi Driver”, il più ascoltato disco del 2020, con l’unico featuring che gli mancava per completare la collezione di figurine del pop italiano. Quando controlliamo i riconoscimenti dei brani su Spotify e leggiamo due righe di nomi alla voce “Scritto da” ci appare immediatamente evidente che più che un’opera d’arte si tratta del verbale di una riunione di condominio.
Se poi tra questi nomi leggiamo Dario Faini e Davide Petrella (due fenomeni eh, attenzione) vuol dire che quello è un condominio del centro, abitato da megapresidenti galattici, uno di quelli che guardi da fuori e ti chiedi, più per curiosità che per invidia, “Chissà chi ci abita lì??”. Ecco, Rkomi, o perlomeno gli artisti talmente bravi da assumere lo status che Rkomi, grazie al successo, tutto dovuto, del suo ultimo disco, ha assunto.
Bisogna essere sinceri: questa plasticità nel brano si sente, si nota che l’intenzione è quella di farlo girare a dovere, farlo suonare in maniera sciolta, ma non è affatto memorabile, anzi, piuttosto semplice, piuttosto piatto, tra Rkomi ed Elodie alcuna interazione ben congeniata, il pezzo dovrebbe raccontare la notte tra due persone che si inseguono con amorosi intenti, ma sembra che le due voci del brano nemmeno si conoscano.
Elettra Lamborghini – “A mezzanotte (Christmas Song)”
Per fortuna che la Lamborghini ha questa davvero irritante abitudine di auto annunciarsi in ogni suo brano, perché dopo i primi accordi ci sembrava di essere cascati in un remake natalizio di “Non succederà più” di Claudia Mori.
Detto ciò, anche se le dita tremano nel digitare ogni singola lettera che seguirà, ritenendo Elettra Lamborghini la metafora perfetta del decadentismo del pop italiano, forse dell’intera cultura occidentale, questo pezzo natalizio ci ha divertito, quasi messo di buon umore, come quei video dei gattini che sulla carta non sopporti, perché ti piace pensare di te stesso, senza alcuna corrispondenza di dati realistica che ne attesti la veridicità, di essere un raffinato intellettuale di sinistra e che la tv sia accesa su “Quattro matrimoni” solo perché lo trasmettono prima di X-Factor e a te tocca seguirlo per lavoro; ma in realtà ti commuovono come “L’olio di Lorenzo”.
Fortunatamente a salvare la tua autostima, intorno ai due minuti e mezzo, all’improvviso un’incoscienza, un inspiegabile inserto caraibico piazzato lì senza alcun motivo logico che ti riporta in un pianeta in cui tu sei tu ed Elettra Lamborghini è Elettra Lamborghini, i pianeti si riallineano e tiri un sospiro di sollievo, ma intanto te la sei ascoltata più volte e non hai alcun conato di vomito. Una crisi che ti porta a ricercare il tuo sguardo in uno specchio chiedendoti cosa stai diventando, chi sei, senza una risposta certa.
Mara Sattei – “Ciò che non dici”
Che bomba! Mara Sattei e il fratellino tha Supreme ci sono ricascati. “Ciò che non dici” è puro e semplice futuro, è il meglio che possiamo aspettarci dalla discografia di domani. Lato interpretazione la Sattei ci conferma che farcela è possibile, perfino se sei donna in un ambiente che le donne le schifa come appestate, basta effettivamente proporre uno stile personale e quello di Mara Sattei non è solo personale, è proprio unico, ultraterreno.
Lei lo armeggia come se fosse uno strumento musicale, la sua voce infatti, in un’era in cui si chiude un occhio, spesso entrambi, perfino sulle stonature più evidenti, suona. La sua voce suona. Il fratellino Davide Mattei, tha Supreme, fino all’altro ieri ciucciava ancora latte e in pochi anni non si è solo inventato una nuova e accattivante e affascinante e trascinante idea di musica, ma l’ha praticamente imposta al mercato. Wow.
Ministri – “Numeri”
Ok si, dai Ministri non ci si può aspettare niente di meno di ottima musica, quella brutta gli è talmente sconosciuta che andrebbero a guardarla tirare a campare dietro le sbarre di uno zoo se qualcuno si fosse inventato uno zoo per musica brutta (il che, sarà la stanchezza del fine settimana, ma ci sembra la migliore idea mai partorita da mente umana); ma questa “Numeri”, bisogna essere onesti, supera anche le nostre aspettative.
Mettendo un attimo da parte la magnifica idea di visualizzare la realtà attraverso un caleidoscopio matematico, di raccontare quanto sia tangibile, alle volte perfino giusto, ma sicuramente fuorviante, guardare al mondo con questa quadratura perfetta; “Numeri” suona da Dio, ti cattura dall’inizio alla fine, ti fa fare si con la testa, ti costringe a piazzarti al centro della stanza a ballare su una gamba sola e i pugni in alto.
Ma poi, quanto è ammirevole, non rassicurante, non solo perlomeno, proprio ammirevole, a fine 2021, cliccare play su un nuovo brano di una band che conosci così bene e notare quanto quel suono sia incapace di invecchiare, riconoscere sempre gli stessi connotati, l’incapacità di tradirsi, giocare su due piani temporali diversi, presente e passato, e osservarli bilanciarsi con maestria. Ora l’unico problema è la voglia di sudare ad un concerto dei Ministri che ‘sto pezzo ti fa risalire per la gola. Per il resto, tuttapposto.
Giorgio Poi – “Gommapiuma”
È molto complesso scrivere di un disco del genere, di un disco talmente bello da provocarti un vuoto nel petto, uno di quei vuoti pesanti, un lutto, ma sereno, felice, un lutto di pace. È complesso specie perché poi quel vuoto devi raccontarlo e come fai a raccontare di qualcosa di così intimo, di quel twister all’altezza del plesso solare che ti tormenta dalla prima all’ultima nota? “Gommapiuma” è un disco che merita il Tenco, subito, anticipato, senza discussioni; è un lampo di genio cantautorale assoluto, non c’è un solo accordo storto, non c’è una sola tonalità sbagliata, una pausa, una virgola, niente. E per niente intendiamo proprio niente.
Ti provoca questa sensazione che sta a metà strada tra la pace interiore, quella zen, da nirvana, e una sorta di imbambolamento con un sorrisetto ebete sulla faccia che sbuca fuori senza nemmeno che tu te ne accorga, come se ancor prima delle orecchie i pezzi siano stati assorbiti dalla pelle e dirottati verso cuore e stomaco; e quel sorriso fosse solo un tic di gioia assoluta che si manifesta sulla tua faccia.
Forse mai Giorgio Poi è riuscito a costruire attorno al suo timbro così etereo pezzi che lo valorizzassero in maniera così totale, il tema delle ombre, da non considerarsi come oscurità ma come stratagemma del sole per ammorbidire la realtà, ritorna in quasi tutti i pezzi e la sensazione, davvero, è quella di vivere per una mezz’ora in un mondo di gommapiuma, un mondo in cui ogni spigolo è smussato, i pugni sono carezze, le lacrime acqua da bere quando hai sete, le rughe cicatrici di euforia; la musica aria da respirare a pieni polmoni e il nostro effimero via vai che si adegua, che ci va a tempo, nessuno che va da nessuna parte, solo campi sterminati di poesia. Sarebbe bello trasferircisi in un posto del genere, Giorgio Poi ce ne regala giusto un pezzettino, ma è già abbastanza.
Wayne Santana feat. Rosa Chemical, Tony Effe e Radical – “Marmellata”
Si sono messi in nove per scrivere questo manifesto di tutto ciò che è più detestabile della trap; una roba da far sanguinare le orecchie, senza alcun guizzo, né in termini di sound né, tantomeno, di testo. Ti fa venir voglia di andarli a cercare tutti e nove per farti ridare indietro i 2 minuti e 48 secondi che ti hanno rubato, alla fine ti viene anche voglia di spruzzare deodorante nella stanza, perché è un pezzo talmente brutto che appena stacchi hai quasi la sensazione che abbia lasciato un insopportabile fetore nell’aria.
Peccato per Rosa Chemical che è uno bravo e, tutto sommato, anche per Tony Effe, che la scorsa settimana ci aveva stupito insieme a Sfera Ebbasta con un brano davvero divertente. Ma questa roba qui è totalmente improponibile, significa ingolfare il mercato inutilmente.
2nd Roof feat. Jake La Furia, Nitro e Speranza – “Berlusconi”
Quando c’è mestiere la differenza viene fuori e ti prende a sberle. Tre cavalli di razza della scena rap italiana, guidati dal pluridecorato duo di producer 2nd Roof, rilasciano fuori un serissimo divertisment che prende in giro i cliché del gangsta rap. Da morir da ridere, la conferma che in fin dei conti, una volta fatto grande, anche il rapper più macho macho si accorge che un certo stile in Italia risulta ridicolo.
Murubutu feat. Claver Gold e Rancore – “Black Rain”
Già quando questi tre signori aprono bocca bisognerebbe star zitti e attenti, braccia conserte e orecchie bene aperte; perché sono signori che di quel lembo di terra, fortunatamente sempre più popoloso, che divide il rap dal cantautorato impegnato potrebbero essere sindaci.
Poi se insieme lavorano ad un progetto così affascinante come la narrazione apocalittica di una città dove i cittadini sono controllati da camere nascoste dentro la pioggia, allora proprio non c’è storia. I tre potrebbero anche aver scoperto una nuova ramificazione del rap, barre pensate in funzione di una narrazione drammaturgica, magari presto dovremo confrontare Salmo e Asimov, Marracash e J. G. Ballard, Caparezza e Ray Bradbury.
D’altra parte il valore letterario di quasi tutti i grandi del nostro cantautorato è stato certificato già da tempo, perfino la scuola italiana, che non ha mai rappresentato chissà quale avanguardia nel mondo dell’istruzione, presenta nei programmi, addirittura tra i titoli da analizzare agli scritti di italiano agli esami di stato, le canzoni di Dalla, De Andrè, Conte, etc, etc…allora perché non il rap? Perché roba da giovinastri scapestrati? Chi lo pensa non c’ha capito proprio niente della cultura hip hop, non c’ha capito proprio niente nemmeno di quello che ruota attorno alla cultura hip hop. Non c’ha capito proprio niente di niente su niente.
Valerio Mazzei – “Mi odi ma”
Musica per ragazzini, prodotta però con senno e lucidità, noi non siamo cresciuti con musica molto molto molto migliore. Forse noi eravamo meno avviliti dalla tristezza, nel senso che tutto sommato star male, in cameretta, con le cuffie, al buio, ascoltando “Nessun rimpianto” degli 883, pensando a quella ragazzina dell’ultimo banco che guardava chilometri oltre noi, era una condizione piuttosto comune; oggi l’impressione è che questi ragazzi vivano la sensibilità quasi come una sconfitta, stanno crescendo con un modello, quello della cultura urban, che sono anche troppo piccoli per capire, così trovano certezze e stabilità nell’aggressività, nell’impermeabilità da quel romanticismo che a noi tanto ci ha logorati, che è stata radice di tutta una serie di problemi dei quali ad oggi si occupano i nostri terapeuti.
Anche per questo il disco di Valerio Mazzei, perché si, tutto è partito dall’ascolto del suo disco, assume un senso: i brani sono freschi, adatti ad avvicinare i ragazzi alla musica, che è uno sporco lavoro che qualcuno dovrà pur fare.
Che il giovine Mazzei stia tranquillo, non c’è mica nulla di male, anzi, serve un talento del tutto specifico che non tutti hanno nel mettere in musica quel sentimentalismo da scuole medie, spicciolo, di chi guarda al mondo con una speranza che verrà certamente disillusa. Non è che vogliamo fare la parte di quelli che svelano a un bambino che Babbo Natale non esiste, ma non esiste, e mica è colpa nostra.
Kaworu feat. PSICOLOGI e Ariete – “Non ce la faccio più”
Brano che rappresenta linguaggio, immaginario e pensieri di quel genere di adolescenza che non capiremo mai e che, in qualche modo, odiamo. Non perché siamo troppo vecchi per capirla ma perché ci costringe a metterci dalla parte di chi getta gavettoni d’acqua ai giovani che chiacchierano la notte sotto la finestra “Che qui c’è gente che lavora!”, la parte dei vecchietti che scatarrano a terra brontolii nel cortile del palazzo.
Si, ok, l’ascensore è rotto e tre piani a piedi con le pizze in mano hanno rischiato di ucciderci, ma non ci sentiamo di avere già un piede nella fossa, ancora sappiamo spassarcela a dovere; non è giusto che ci venga proposto (anche se capiamo benissimo che il brano non è rivolto a noi) una canzone dove le ragazze, ragazzine presumiamo, sono “tr…e” o “str…e”, a prescindere da una morale che abbiamo sempre dribblato in scioltezza alla Denilson (quindi ritirate quell’indice puntato), troviamo certe espressioni proprio cacofoniche.
Ecco, forse è questo il vero difetto di questo brano: è scritto male, come se fosse un messaggio su WhatssApp, manca totalmente di anche una vaga idea di lirica, di poetica. Peccato, perché il lavoro di produzione non è neanche tanto male e sia PSICOLOGI che Ariete sono due dei progetti più interessanti del nuovo pop nostrano.
Gianni Bismark – “C’avevo un amico”
Quando il rap racconta storie talmente grandi che non possono che coinvolgere l’ascoltatore, e intendiamo qualsiasi ascoltatore. Tutti c’avevamo un amico che, un amico con cui, un amico per il quale, e tutti noi ad un certo punto della strada l’abbiamo perso. Nessun litigio clamoroso, solo la vita che devia una strada che sembrava potesse essere la stessa per sempre, e invece no. “C’avevo un amico” è onesta, nostalgica, quasi commovente. Non ci aspettavamo niente di meno da uno bravo come Gianni Bismark.
Nicola Siciliano – “Run”
Infilate le cuffie, chiudete gli occhi, immergetevi nell’atmosferico della produzione di questo fenomeno di scugnizzo napoletano e vi ritroverete in un attimo in quell’Ammmerica dove il rap non è il mezzo per fare follower ma una cultura che ha la forza e anche un po' il dovere di fotografare un disagio, per esprimerlo, renderlo reale, esorcizzarlo. Succede nell’Ammmerica e succede anche a Napoli e c’è tutta una nuova generazione di ragazzini che con le parole ci fanno i quadri, Nicola Siciliano è uno di loro. Bravo.
Cristina Donà – “deSidera”
Non sappiamo da dove nasca questa invereconda paura per tutto ciò che suoni intellettuale, vagamente più complesso. Le complicazioni mica sono ostacoli, anzi, al contrario, sono il segnale che siamo sulla strada giusta, quella strada che porta a qualcosa che non ti viene regalato, che costa sacrifici, che vale di più. Ecco, Cristina Donà vale di più. Non c’era bisogno di questo “deSidera” per capirlo, lo sappiamo da anni, ce ne siamo accorti dopo la consegna ufficiale, indubbia, incontrovertibile, al nostro cantautorato, di alcuni dei più bei brani della sua storia.
In questo nuovo lavoro la Donà ci ripropone quella poetica così raffinata, così soffice, eppure sempre così intensa, incisiva. Quel timbro ipnotico, quella giungla di suoni dentro la quale ci si perde senza paura, ma che va affrontata con l’impegno di chi sta cercando qualcosa.
Ecco, non bisogna mai dimenticarci che riducendo la musica a mero intrattenimento ne perdiamo l’essenza, l’utilità, che è una funzionalità sempre troppo sottovalutata. Ascoltare lo straordinario “deSidera”, arrivare fino in fondo a questi dieci straordinari brani di questa straordinaria cantautrice, certamente nella top five delle migliori artiste italiane, alla fine, vedrete, vi farà sentire un po' più ricchi.
Dat Boi Dee feat. J Lord e Baby Gang - "Hood Love"
Un altro brano che si aggiunge alla lista di quelli che dimostrano che la lingua ufficiale dell’urban italiano è certamente il napoletano. Le atmosfere del brano sono così precise che tu mentre ascolti vedi, mentre vedi senti, dentro, l’aria che si fa più densa, come se lo scenario del pezzo ti si materializzasse davanti agli occhi. Tutto molto coinvolgente. Bravi.
Il Pagante feat. Lorella Cuccarini – “Un pacco per te
Nonostante il titolo del brano ti tiri dalla bocca battute che non farebbero onore neanche all’ultimo degli amici trucidi del bar, si tratta solo di un pezzo di Natale, trattenete quelle risate, sciocchini.
Immanuel Casto feat. KARMA B – “Piena”
Immanuel Casto è uno dei pochi artisti davvero disturbanti della discografia italiana. Lo fa sempre con un umorismo tanto evidente quanto educato, di gusto, strafacendo nel trash, giusto per bilanciare, solo nella composizione delle musiche. Questa è la sua ricetta, anche per questa nuova “Piena” e noi lo troviamo irrimediabilmente affascinante.
Jack Out feat. K beezy 28 – “La cura”
Bisogna lavarci i denti prima di sparare a zero su un certo genere di musica e i loro interpreti, specie quando quella musica è diventata linguaggio di una cultura, ormai di massa, di uno stare al mondo che coinvolge un’intera generazione di ragazzi con il loro pubblico.
“La cura” è un disco trap, uno dei migliori dischi trap ascoltati in questi anni, perché, mettendo da parte un’idea di sound illuminante, mettendo da parte intuizioni dannatamente efficaci, prima ancora di venire fuori quella solita necessità narcisista di raccontare se stessi, o meglio, l’idea che si vuole dare al pubblico di se stessi; viene fuori l’autenticità di chi scrive, le proprie fragilità, le proprie umane sensazioni messe in musica, in modo tale da risultare poi dunque particolarmente coinvolgenti.
Un lavoro eccezionale, che pulsa di vita, che strabocca di sentimentalismo mai spicciolo, mai fine a se stesso, una panoramica intima e allo stesso tempo dannatamente pop, confezionata in maniera precisa, chirurgica, raffinata. Consumatevi questa “Lampi” come stiamo facendo noi, fisicamente impossibilitati a smettere. Bravissimi.
Fadi – “Stagioni”
È sempre estremamente piacevole ascoltare il lavoro di Fadi, anche solo per farsi accarezzare le orecchie da quel timbro così basso, intenso, ficcante. C’è forse bisogno di far fare uno step in più a tutta la parte testuale, che a tratti risulta vagamente sempliciotta, non all’altezza delle intuizioni musicali né di una voce che, veramente, wow.
Sem&Stènn feat. Mudimbi – “ROCKY”
Se Sem&Stènn non sono finiti nel dimenticatoio dei talent è perché sono rimasti sempre fedeli alla loro idea di musica, così disarticolata, distorta, disturbante. In questo singolo soffriamo assieme a Rocky, il pugile portato sul grande schermo da Stallone che le prendeva di santa ragione ma alla fine vinceva sempre, e mai perché più forte ma perché sempre capace di tenere duro, incassare, rialzarsi e andare avanti. Divertente immaginarcelo in una cornice così cupa, a prendere sberle dalle tentazioni della notte, ma il pezzo è divertente, merita un ascolto attento.
Napoleone – “Lacrime a mare”
Un sound che richiama al funk che si respirava a Napoli negli anni 70/80, ma declinato al presente; un testo, solido, che sa di nostalgia per luoghi sconosciuti, che suona come suonerebbe la linea dell’orizzonte.
Napoleone traduce perfettamente in musica quella stranissima forma di malinconia che ti prende pensando ai chilometri che ti separano da una terra alla quale, anche se non l’hai scelto, anche se qualche volta magari nemmeno lo vorresti, comunque appartieni. Un briciolo di sogno per ogni chilometro che ti separa dall’unica casa che avrai mai nella vita. Un peso doloroso da sopportare, complesso da descrivere, bravo Napoleone che ci riesce.
Gionata feat. Jesse The Faccio – “Il contorno”
Brano che si porta avanti su una serie di guizzi che lo rendono particolarmente interessante, da ritoccare il lavoro di produzione, in questo senso è come se il pezzo fosse avvolto da una plastica che non gli permette di esplodere, di respirare. Ma l’ascolto è caldamente consigliato.