AGI - A primo ascolto si potrebbe pensare che “Materia (Terra)”, il nuovo disco di Marco Mengoni, possa rappresentare una svolta nella sua carriera, ma sarebbe ingeneroso. Non solo perché anche i precedenti album di Mengoni erano degli ottimi lavori, ma perché si rischierebbe di porre in secondo piano il suo sviluppo, quasi come se il davvero ottimo “Materia (Terra)” fosse un colpo di fortuna.
Non è affatto così: Mengoni riesce in un’impresa straordinaria, specie per chi è così tanto amato dal pubblico, forte non solo del debutto accelerato da X-Factor (anno domini 2009, discograficamente parlando ormai pura preistoria), o della vittoria al Festival di Sanremo che quel successo ha consacrato dinanzi all’Italia tutta, ma di una continua e riuscitissima maturazione, che è la cosa più complessa per qualsiasi artista.
Per riuscirci serve concentrazione e lavoro, si, ma soprattutto è necessaria la capacità, ammettiamolo, quasi extraterrestre, specie in un’era all’insegna di un cieco ed affannoso inseguimento di una popolarità quasi sempre gratuita, di non ubriacarsi di se stessi, non accontentarsi dei risultati raggiunti, anche quando sono evidentemente spettacolari, quelli di Mengoni nello specifico sono veri e propri fuochi d’artificio. La ricerca musicale parte da lì, da un amore autentico per la materia prima del proprio mestiere: la musica, in faccia a chiunque ti pretenda piegato al mercato, radiofonico fino al midollo, in copertina a tutti i costi.
Intendiamoci, “Materia (Terra)” in classifica ci finirà, i due singoli che hanno anticipato l’uscita di questa prima parte di quella che sarà una trilogia hanno già riscosso il dovuto seguito; ma sarebbe bello che anche il largo pubblico cogliesse le sfumature di questa suddetta maturazione dell’artista.
La musica serve principalmente a dispensare emozioni, d’accordo, che si faccia parte della categoria “addetti ai lavori” o meno, il meccanismo, nel bene e nel male, è semplice e si può ridurre alla ricerca di semplicissimo sano benessere; ma è importante distinguere l’amore dalle sveltine, esattamente come è importante nella nostra vita di tutti i giorni.
Marco Mengoni in questo disco, con una lucidità assoluta, una precisione chirurgica e un’idea chiara, esplora ogni singolo spigolo della propria sincera passione; dentro ci trovate il soul americano, rimasticato con suoni orchestrali e un’interpretazione dei brani non solo emozionante, che gioca su ogni singola minuscola sfumatura del timbro unico della voce di Mengoni, ma anche estremamente nitida.
Arriva tutto quello che deve arrivare: il cantautore affronta se stesso, si tratta quasi di un personalissimo studio dell’anatomia della propria anima di artista e di uomo; partendo dal proprio passato, dalle proprie radici, quindi la terra, capire forse il meccanismo che l’ha portato a germogliare in questo e non in un altro modo, la voglia, no, la necessità, di isolare il vociare fisiologico attorno alla propria figura di star, per avere il coraggio di colpire di fioretto proprio al centro delle proprie origini, dove solitamente fa più male, ciò che vogliamo proteggere quando alziamo la guardia.
Per farlo Mengoni fa tutto meno che lasciare il mondo fuori dalla porta, anzi, si fa accompagnare in questo percorso di autocoscienza da compagni di viaggio che, come Dante nella “Divina Commedia”, possono stargli accanto in un segmento musicale che è sempre ben definito: Purple Disco Machine, al banco regia di “Ma stasera”, trova la chiave di svolta per accelerare i battiti, Gazzelle in “Il meno possibile” fa atterrare il brano in strada, sull’asfalto, bilanciando così il naturale impulso all’etereo quando ce la raccontiamo tra di noi; con Madame, in “Mi fiderò”, Mengoni invece se la spassa, si lascia contagiare dalla brillantezza delle sfumature di colori che la giovanissima rapper è in grado di proporre: rap con una voce dalle tonalità vagamente blues e la penna di un cantautore consumato. Senza dimenticarci di MACE e Venerus, che producono “Cambia un uomo”, che riescono straordinariamente a regalare al brano quell’atmosfera definitiva eppure eterea, distaccata come un esercizio di stile a cui manca solo l’inchino finale e le palette con tutti 10 eppure così incisiva.
E poi ancora Ceri, Taketo Gohara, B-Croma, EDD, un’orchestra di personalità del mondo della tecnica musicale che mettono a disposizione il proprio talento per raccontare quanto di più spirituale l’uomo si sia mai inventato: il passato, i milioni di metri quadri di universo che ci portiamo nel petto, quello straboccare scomposto di sentimenti che a loro piacimento annebbiano e smacchiano il nostro stare al mondo. “Materia (Terra)” è insomma un disco perfetto, non praticamente, sommariamente, parzialmente perfetto. Perfetto. Punto.
Ascoltarlo ti spedisce in un universo altro, un mondo a forma di canzone, dove tutto è musicale, dove le anime svolazzano sospinte dalle note, baciano le nuvole e gli raccontano delle profondità inaudite alle quali si può arrivare se solo, artisticamente, ci si mette in discussione e si lavora, tanto e bene, se si offre al pubblico qualcosa di onesto, poeticamente schietto, impermeabile alle burrasche del tempo.
Insomma, quel genere di musica alla quale serve giusto una IPA ghiacciata e uno sgabello, preferibilmente comodo e bello, per sorreggere il peso dei pensieri che quella musica susciterà, che sono spesso pesanti, se si possiede un minimo di decenza, ma necessari per ricordarci ciò che mai dovremmo dimenticare nei pantaloni della festa: la nostra unicità.
Come sei riuscito a creare un prodotto che non risulta smembrato nonostante il coinvolgimento di così tanti producer e tutti così diversi l’uno dall’altro?
In verità la cosa principale che volevo era pre-produrre in casa. Sono arrivato quindi da tutti i produttori con le idee abbastanza chiare, volevo che l’estro dei produttori che avevo scelto mettesse l’ultimo sigillo ai pezzi, quindi desse quel quid in più com’è stato in tutti i pezzi e che non si allontanassero troppo. Per questo sono arrivato con un’idea abbastanza definita e mi sono costretto ad essere un po' limitante su questo, anche se sono andato a bussare alle porte di produttori che sapevo amassero un certo tipo di musica e venissero da un’estrazione un po' afroamericana, soul, da MACE a Ceri a Takedo, sapevo che dentro di loro c’era già questa cosa qui, quindi non avrebbero potuto stravolgere più di tanto i pezzi, ma avrebbero aggiunto la lucidatura finale, che poi in realtà è quella che ti fa vedere gli ultimi riflessi. La base era costruita, non sono arrivato da loro con un voce/chitarra .
A proposito di generi, mentre ci facevi ascoltare il disco hai nominato blues, gospel, funky…tutti generi che in Italia, discograficamente, sono dei suicidi. La particolarità di questo disco però è proprio che tu riesci a rendere tutto estremamente accessibile e “vendibile”. Questa tua capacità di arrivare in maniera così diretta, “pop” diremmo, è una ricerca? Ci badi particolarmente?
Io non avrei mai potuto fare qualcosa di veramente tradizionale rispetto quel tipo di musica, perché non vengo da lì, non posso appropriarmi di una cosa che non è in verità mia. Potevo prendere tutto quello che era influenza, che mi era arrivato, passarlo dentro di me, metabolizzarlo, filtrarlo e unirlo a tantissime altre cose. Non mi sono posto il problema “Forse sarà un suicidio” o meno, mi sono posto il problema “Sarò soddisfatto alla fine del disco? Questo disco sarà giusto per me?”, perché poi arrivi ad un certo punto in cui consegni il disco finito, e hai sputato la qualunque per farlo, in un percorso a tratti anche molto faticoso e difficile, e dici “Ok, è tutto un casino, è tutto sbagliato”, arrivi a quel punto lì e dici “Eh vabbè…”. Dopo dieci anni che faccio questo mestiere ho capito come sono fatto, a quel punto ti devi fermare, non ascoltarlo più e poi dopo due mesi lo riascolti e se sei soddisfatto anche gli altri saranno più aperti ad ascoltarlo, anche se a primo impatto può essere un po' più ostico, perché comunque tocchi influenze che sono un po' più lontane da quella che è la cultura pop italiana.
Questo disco è decisamente più maturo di “Atlantico”…
Eh be, sono passati quattro anni…
Nel frattempo c’è stato il Covid, c’è stata vita…
…E nel frattempo c’ho pure 33 anni... (e ride)
…eh infatti, ma già hai portato a casa una vittoria a Sanremo, 58 dischi di platino, tour in Italia e in Europa di grande successo, oltre 1 miliardo e mezzo di stream e a giugno il debutto negli stadi…ma che artista stai diventando?
Oh Dio, forse non ci voglio pensare a che artista sto diventando, perché sennò mi spavento. Non voglio guidarlo, voglio che guidi qualcosa, il fato, il destino…anche se arrivo sempre più velocemente ad una coscientizzazione di me, vorrei essere meno cosciente riguardo chi sono artisticamente. Va di pari passo a quello che sono e quello che sto diventando, alla maturazione umana e personale. Sto andando sicuramente verso un sentirmi un “artista”, che per me è un parolone, io non mi considero un artista, musicista mi sembra più giusto per me, perché faccio le cose che mi rendono felice.